Manrico Zedda e Stefano Romani in "Che cos'è un Manrico" |
Che cos’è un Manrico
Gli artisti vedono cose che gli altri
non notano e le rifabbricano, da oculisti provetti dell’immaginazione, in modo
che tutti se ne possano accorgere. Per questo a volte bisogna provocare lo
spettatore. Fargli anche “male”, se necessario. Chi va a vedere una storia anche dura, come Il figlio di Saul, deve
interessarsene, appassionarse, anche se assiste, raddoppiando il piacere
schermico, al rovesciamento di fronte: è anche la storia che vede te. E ti inquieta.
Ti sposta in uno spazio, importante ma pericoloso… E’ solo questa la politica degli autori che ci interessa.
Non estetizzare la politica ma politicizzare gli autori. Col metodo cool di Malle o hard bop di Godard.
Un esempio è questo piccolo grande
lavoro di geografia emozionale complice, radicale e appassionata, che esce oggi
quasi miracolosamente nelle sale (è stato realizzato nel 2012) grazie al ripescaggio miracoloso dell’Istituto Luce che ha incrociato, come Saul sulla via di Damasco, qualcosa di misterioso che lo ha convinto a deviar strada.
E’ Che cos’è un Manrico, un film girato qualche anno fa assieme a un
signore affetto da distrofia muscolare (al suo badante, alla sua nonna, ai suoi amici, alla sua città), la malattia contro cui si è battuto
tutta la vita Jerry Lewis, affranto dalla sua incurabilità (ma Telethon è nata per smentirci) e nello stesso tempo ipnotizzato dai corpi diversamente abili che costringono quelli "normali" a interrogarsi sui propri dispositivi fisici e intellettivi e sulle loro funzionalità. Un doc in forma di commedia, duetti spesso esilaranti tra badante e malato, soprattutto, ma anche tra Manrico e la nonna, qualcosa che ci ricorda i battibecci tra R2D2 e BB-8 di Guerre stellari, Totò e Peppino o tra clown bianco e clown Augusto.
Peccato non averlo visto a suo tempo. Avremmo capito in anticipo, se non altro dalle difficoltà di movimento della carrozzella a motori di Manrico per Prati o per Monti, qualcosa di profondo sul malessere di Roma, che i tg non ci raccontano, perché le mafie peggiori sono quelle così radicate nella mente e che pensi non esistano o ti ci abitui. Uno sa, per esempio, che i centri di accoglienza profughi sono necessari. E si fida che magistrati affidabili ne permettano la gestione anche ad avanzi di galera che hanno pagato con il carcere i loro crimini, garantendo per loro. Poi scopri che invece Buzzi e Mafia Capitale e Alemanno e perfino ambienti vicini a Veltroni….
Peccato non averlo visto a suo tempo. Avremmo capito in anticipo, se non altro dalle difficoltà di movimento della carrozzella a motori di Manrico per Prati o per Monti, qualcosa di profondo sul malessere di Roma, che i tg non ci raccontano, perché le mafie peggiori sono quelle così radicate nella mente e che pensi non esistano o ti ci abitui. Uno sa, per esempio, che i centri di accoglienza profughi sono necessari. E si fida che magistrati affidabili ne permettano la gestione anche ad avanzi di galera che hanno pagato con il carcere i loro crimini, garantendo per loro. Poi scopri che invece Buzzi e Mafia Capitale e Alemanno e perfino ambienti vicini a Veltroni….
L’handicap, invece, può acuire la vista
se ci si sbarazza da alcuni filtri (la paura o il pietismo o il paternalismo)
che ne ostruiscono la visibilità. Ecco il diversamente abile cos'è. Quella capacità di mettere in movimento tutte le teste circostanti.
Nei sette giorni d’estate passati dal
regista in giro con Manrico Zedda, trentenne distrofico di Roma, ex campione di
hockey su sedia a rotelle l’azione, lo spettacolo, il thrilling è la
quotidianità. La normalità di una persona diversa ma uguale. Si incrociano,
come succede a tutti, i musicisti di strada, si entra nei bar, si chiacchiera
con chi lavora nei ristoranti cinesi, si filosofeggia in piazza di San Pietro (prima
che la blindassero) si sale fin sui terrazzi di casa, ci si fa la doccia (a fatica) e si va a vedere una
partita…
Una carrozzella, anche se a motore, nel
centro della Capitale, ha non pochi problemi di movimento, perfino in piazza Adriana. Fare slalom tra
le macchine e arrampicarsi sui marciapiedi ostruiti è infatti proprio quello
che succede, nella metropoli proprio a tutti noi ma, ad agosto, tra Borgo Pio e
Campo de’Fiori, soprattutto ai Manrico. Ai più ultimi di tutti. E’ per loro che
si vota, non per noi. Chi risolverà il doppio problema di Roma (paralisi delle
attività e mafia, proprio quello di Palermo nella lettura di Benigni in Johnny Stecchino) vincerà le elezioni
più disertate del secolo. Lo può fare solo la politica. Non l’indignazione
frivola.
Torniamo al film. Orfano di padre e
madre, Manrico vive con la nonna in una casa del centro storico di cui non possiede le chiavi anche se ha 33 anni. E lei è troppo
anziana, anche se ha una vitalità da uragano,
per occuparsene. Ma è gelosa di chi se ne occupa. Dunque Manrico dipende totalmente dal volontariato. E
con Stefano Romani, il suo operatore sociale di rara sensibilità ha un rapporto
bellissimo, scherzoso, fisico, psichico, materiale e immateriale, nonostante Manrico,
un tipetto non facile, sia tremendamente stonato quando canta e muova
(debolmente) ormai solo la testa e i pollici che lo collegano con tutto il
mondo via social network. Intanto i finanziamenti pubblici agli operatori
sociali, forse perché considerati un grande spreco di spesa pubblica come gli insegnanti di sostegno nelle scuole, non aumentano, anzi rischiano di essere tagliati. Perché, come diceva Pasolini, si confonde sviluppo con
progresso. E vanno di moda i Pil che tutto misurano tranne la dignità della vita. Stefano farà molti straorinari non pagati....
Il cineasta carrarese che viene dal
corto e dal documentario impegnato Antonio Morabito era un amico di Manrico anche
prima di girare il film, come si intuisce. La complicità culturale e il livello
di intimità nei dialoghi "messi in scena" lo proveranno. Non c’è argomento, sesso, dio, politica,
etica, estetica, critica del presente, che sfugga alla sapienza da "romanaccio verace" di questo ragazzo chiamato Robocob per scherno affettuoso dai compagni di quinta elementare. Roma ha un grado di calore umano che sfugge agli stranieri. E' la genialità della sua volgarità e schietta ferocia, mai però ipocrita. Nel
documentarismo moderno, dall’epoca di La
memoria fertile in poi (un film del palestinese Michael Khleifi che ha
cambiato le regole del gioco) non si insegna nulla e non si convince il
pubblico di nulla (contro chi, attraverso una voce fuori campo ispirata da
forti potentati o comitati centrali di partito, imbavagliava le immagini). Si
deve conquistare prima di tutto la fiducia e abbattere le diffidenze dello
spettatore che ha paura di essere truffato dalla messa in scena (c’è sempre nel
doc), ingannato dagli slogan (le generiche accuse al sistema tanto di moda
oggi, e sempre ininfluenti, anche in Parlamento), suggestionato dalle immagini.
Per combattere la sensazione di sentirsi un burattino privo di strumenti di
difesa, il cineasta deve garantire allo spettatore che prenderà la parola per
trasmettere un’esperienza di verità, magari piccolissima, in cui è coinvolto
personalmente, che conosce bene. Non parlare mai per interposta persona. Ma
sempre in prima persona singolare ribelle, in questo caso maschile. E’ il
metodo Gianfranco Rosi. Il procedimento Pietro Marcello. Il sistema
Michelangelo Frammartino. Insomma la sensibilità più che la poetica che unisce
il migliore cinema italiano esportabile del momento.
Direte: e l’umorismo? In
fondo è stato grazie a Michael Moore che questo genere negletto al box office è
diventato di nuovo fiorente. Ma anche su questo terreno Morabito ci stupisce,
visto i film precedenti, e soprattutto Non son l’un per cento (2007), oratorio
severo sul movimento anarchico italiano, suoi splendori e problemi, che un
carrarese come lui ovviamente ben maneggia geneticamente e sul quale (Pinelli
docet) c’è ben poco da ridere. Morabito ha esordito nel 2003 nel lungometraggio
di finzione con Cecilia (che era il
prolungamento di un corto) distribuito dalla Pablo di Arcopinto, e nel 2013 ha
diretto Il venditore di medicine, con
Claudio Santamaria, che sta facendo il giro del mondo dei festival, e che
contiene nel sottotesto non pochi tocchi di umorismo macabro. Qui la novità non è l’umorismo
del regista, ma il sarcasmo, ironia, il pensar provocatorio, arrabbiato,
arrapato, sorridente e ridanciano del suo personaggio e amico. Manrico guida le danze. Da ex
sportivo conosce tutte le regole e sa che senza conoscerle e senza scavalcarle
non si segna. Il pensiero deve andare sempre al di là di se stesso. Delle sue possibilità e dei suoi limiti. Ci insegna a muoverci meglio e di più. Se non con le gambe. Con la testa. La creatività. Direbbe Emilio Garroni che questo film ci insegna qualcosa della creatività. Per questo anche se Manrico non c'è più oggi è lui che presenta il "nuovo film di Antonio Morabito".
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