Roberto Silvestri
Il film d’esordio dell’ ungherese Laszlo Nemes, 38
anni, Son of Saul, Il
figlio di Saul, in questi giorni nelle nostre sale distribuito da Teodora, era
l'unica “opera prima” del concorso di Cannes numero 68 e ha vinto
sorprendentemente il gran premio della giuria. E’ tra i favoriti della notte
degli Oscar 2016. Il set e l'argomento del film (diretto dall'allievo prediletto
di Bela Tarr) è Auschwitz nell' ottobre del 1944. I russi stanno per arrivare e
per liberare i prigionieri ebrei (e anche comunisti, dissidenti, rom e
omosessuali) sopravvissuti alle camere a gas, agli stenti e al superlavoro. La
“soluzione finale” richiede un surplus di efficienza e velocità burocratica. Il
Fuhrer forza la macchina dello sterminio ai ritmi altissimi di cui parlerà Adolf
Eichman, con una certa soddisfazione professionale, al processo in Israele (avvenuto
troppi anni dopo, grazie a un virtuosistico rapimento in Argentina) prima di
essere impiccato. Il nervosismo dlele SS rende attuabile la resistenza interna
e si prepara un’insurrezione nel Lager... Alto il quoziente di difficoltà per
un cineasta esordiente, anche perché il cinema civile occidentale ma
soprattutto dell'est Europa ha scodellato, soprattutto a caldo, nell'immediato
dopo guerra, talmente tante opere folgoranti, “per non dimenticare” l'orrore,
dai capolavori di Jakubisko e Wajda, Resnais e Munk, Grifi e Marker, Pontecorvo
e Lanzmann fino a Benigni e Spielberg, da costringere i cineasti di oggi a un
necessario spostamento di sguardo o salto di ingegno per non essere
controproducenti, retorici o ripetitivi e per non colpire a vuoto un
immaginario che non sopporta il gioco facile con i sentimenti forti e netti. Ed
ecco l'originalità dell'operazione di Nemes (coadiuvato alla sceneggiatura da
Clara Royer). Intanto lo sguardo su Auschwitz è quello di un prigioniero ebreo,
Saul Auslander, ungherese, membro del Sonderkommando, squadra speciale isolata
e apparentemente “privilegiata”, perché destinate a essere giustiziate dopo,
solo poco prima dei kapò e dei “Murmelstein” (da notare che al Biografilm
Festival 2015 è stato presentato il nuovo lavoro di Giovanni Cioni, Del Ritorno sulle memorie di Silvano
Lippi, vittima del perfido gioco dei nazi e sbattuto nel Sonderkommando, di
Mathausen, questa volta).
Saul (Géza Röhrig) è dunque un prigioniero speciale, ha una grossa croce
rossa ben visibile sul retro della giacca, non è scarnificato come gli altri,
mangia qualche patata in più, può giare con meno controlli e può far traffici
agevolmente, perché deve fare lavori molto faticosi: è obbligato a trasportare
i prigionieri nelle camere a gas travestite da docce, e non tutti sono
inconsapevoli, a raccattare e dividere vestiti e beni personali (trafugando
quel che serve, a volte, per la sopravvivenza spiccia), a pulire dai cadaveri
nudi i locali sporchi di sangue e avvelenati, a spalare e gettare al fiume la
montagna di cenere dopo ogni cremazione dei corpi…
Tra
“i gasati” dal Ziklon B, un giorno, trova un ragazzo miracolosamente ancora
vivo, che crede di riconoscere come suo figlio. Un medico delle SS lo
giustizia, soffocandolo con fastidio. Ma Saul riesce a sottrarre il corpo alla
cremazione e si impegna a trovare un rabbino, a rischio di morire, pur di dare
a quel corpo una sepoltura ebraica dignitosa, sottoterra, con tanto di Kaddish
declamato. Come un simbolo di resistenza e di rivolta. Come un sintomo di
follia vendicatrice. La rivolta scoppia davvero, ma... Non è tanto importante
il racconto degli avvenimenti posteriori (anche il film sembra
disinteressarsene). Quanto il lavoro con gli attori e con la cinepresa di
Nemes. Un estremo micronaturalismo provoca un effetto astratto, secondo la
lezione di Pina Baush o di Peter Stein, perché Nemes utilizza implacabilmente e
claustrofobicamente il primo piano e il “primo piano rovesciato” (cioé il protagonista
è spesso inseguito in piano sequenza, ad altezza di nuca semovente) lasciando sfocati gli sfondi più
insostenibili. L’effetto è potente, un po’ alla Raffaello Sanzio. Vediamo la
violenza nella sua astrazione pura come messa in scena di un dolore
concettuale, più inquietante. Notevole. Lo stesso effetto di perdita
totale dell'identità provocato dalla situazione di un prigioniero nel lager
nazi. Ancora di più sull’orlo della follia, se privilegiato anche solo un po’. Spossessati
del corpo e del nome, numeri deambulanti, i prigionieri sono pura resistenza
vitale, potrebbero diventare altro, qualunque cosa, trasformarsi perfino in
“rabbino” pur di sopravvivere una mezzora di più all’esecuzione, e lo stesso
sguardo può opacizzarsi sui morti (sono tutti inquadrati a distanza, obliquamente,
fuori fuoco o in flou perché non si devono, non si possono “vedere” più) o
metamorfizzare gli spazi e i corpi, come accade al cadavere di quel ragazzo
trasfigurato in altro (probabilmente Saul non ha mai avuto un figlio, probabilmente
se lo ha avuto non è quello, ma la prospettiva di un David in più, da
consacrare, è l'unica che forse permette di ipotizzare una via di fuga dalla
shoa, almeno fantasmatica). Questo gioco formale tra naturalismo e sacralità e quello
sostanziale tra realtà storica e immaginazione psicotica, molto ben
controllato, è quel che fa il film differente e interessante e di Nemes un
sicuro talento capace di deformare la nostra segnaletica rassicurante.
Nonostante un finale che perde la tensione “teatrale e documentaristica
assieme” tenuta fin dall'inizio, sciogliendosi nell’azione liberatoria da film
di genere, nella narrazione standard fatta di scenari più prevedibili e meno
ossessivi: il piano segreto, lo scontro nel lager, la fuga nei boschi dei prigionieri,
l’inseguimento coi cani drogati e la capanna dove più che altro è la macchina
da presa a riposarsi per un attimo. Di cui. Prima del finale indecente e atroce
che conosciamo.
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