di Roberto Silvestri
A.K.A Serial Killer di
Masao Adachi stanotte, venerdì 17 gennaio, a Fuori Orario. Imperdibile
Masao Adachi, l’Armata Rossa del Dissenso (sessuale)
‘Cinema e rivoluzione sono la
stessa cosa,
lo stesso movimento”
“Come Giobbe, l’eroe biblico,
io vedo la figura del rivoluzionario continuamente disillusa, sconfitta, ma ciò
nonostante mai doma. E questo potere di ribellione, di rivolta, Louis-Auguste Blanqui,
Toni Negri e io, nel mio piccolo, lo vediamo nel popolo, nella gente, nella
classe operaia. In un mondo dove sembra che il capitale abbia un potere di
controllo assoluto, dovremmo cogliere le parti, gli elementi che in noi stessi
eccedono questo paesaggio-copia, solo là la libertà come la vita umana comincia
e l’espressione diventa possibile”
(Masao Adachi, intervista di
Matteo Boscarol, Alias 2005)
…………
Verso l’altra parte del fiume
Di Masao Adachi, regista
giapponese vivente ed ex guerrigliero dalla parte dei palestinesi, Fuori Orario
sta trasmettendo in queste settimane alcuni bellissimi film. E’ il caso di
soffermarci su questo cineasta, e sceneggiatore di Oshima e Wakamatsu, così
importante e sconosciuto che, per motivi politici, è stato espulso
dall’immaginario giapponese e mondiale. Intanto ricordiamo uno dei pochi film
usciti sul mercato con sottotitoli italiani.
Restaurato e riportato
finalmente in vita dal festival di Rotterdam 2009 questo meraviglioso e
‘pericoloso’ capolavoro del cinema autonomo,
‘Funshutsu kigan: 15-sai no baishunfu’, in inglese ‘Gushing prayer’, che si potrebbe tradurre in italiano
‘Preghiera gaudente (forse anche eiaculante)-La prostituta di 15 anni’ (1971),
è stato pubblicato in Italia da Rarovideo ed è il più affascinante e doloroso
‘pink movie’ (soft-core), cioè film a luci rosa di Masao Adachi, e il più
maturo, stilisticamente, tra i film erotici realizzati nella prima parte della
sua carriera.
Quali sono i pensieri, le
emozioni, lo stile di vita della nuova generazione giapponese, violentemente a
caccia di identità, di felicità e di sacro da oltre 10 anni, che vuole
prefigurare un mondo ‘altro’ e dalle relazioni umane anti-autoritarie?
Il film, di lotta continua
contro chiunque sia oggetto di pregiudizio (il pregiudizio fondamentale è che
‘la maggior parte dei maschi giapponesi è convinta che tutte le donne siano
masochiste”, come afferma lo scrittore Oniroku Dan), soprattutto se è una
ragazzina indifesa, che deambula senza scopo con i suoi tre amici nella
metropoli in stato d’assedio poliziesco, diventa una austera e accorata suite
sul baratro generazionale nell’epoca del boom economico, dell’umiliante
sottomissione alla politica e all’economia degli Stati Uniti d’America, degli
orrori in Vietnam e della lotta mondiale, perfino terrorista, affinché quella vile aggressione terrorista finisse, e
subito.
Un elogio ‘a distanta’ non
esente da appassionate critiche, dei ‘fuoriusciti’ dalla società
neocapitalista, che già dispiega tutta la sua rapacità e rovinosa velenosità
(il pesce al mercurio sta già, nel frattempo, assassinando consumatori, bambini
e pescatori, aspettando Fukushima).
Un pamphlet sull’impossibile,
ma eroica battaglia per l’autovalorizzazione di una ragazzina ‘frigidizzata’ da
una cultura convinta che non esista il darsi reciproco piacere nel sesso. E’
Yasuko Aoyagi (l’attrice Aki Sasaki), schiacciata da sensi di colpa
incontrollabili e da ‘spiriti maligni’ che la opprimono ovunque e che vorrebbe
ridare senso alle sensazioni, alle parole, alle emozioni e ai suoi ‘cinque
sensi’ comunicanti.
Il film diventa un match di
pugilato contro la sessuofobia di una società ipocrita e malsana, un ‘rock
movie’ che esalta l’ingenuità della band di sbandati (Yasuko, il suo ragazzo
Koichi, l’attore Hiroshi Saito, e l’altra coppia di ragazzi,Yoichi e Bill) che
non hanno, né in famiglia né a scuola né in società, aiuti né punti di
riferimento, che non siano i propri stessi corpi da esplorare, per capovolgere
o decostruire gerarchie di genere, pregiudizi radioattivi o piaceri
contaminati.
‘Funshutsu kigan: 15-sai no
baishunfu’ (in inglese ‘Gushing Prayer’) esamina, con rara partecipazione e
affetto, la dissipazione di sé, il suicidio tragico come orizzonte inevitabile
di un’adolescente in rivolta, e comunque la vita di Yasuko scissa tra le regole
di un gioco sessuale che ha deciso di mettere in scena senza maschere con il
suo quartetto misto di amici, alla scoperta spietata del significato interno e
esterno del gioco erotico tra coetanei (cosa si prova? com’è? senti niente? e così?
Perché vai così veloce?) e il ‘tradimento’ rispetto a quel patto, regolato da
un catechismo di setta già inquinato dal
mondo conformista, procreativo e dai valori ‘laburisti’ che lei vorrebbe
combattere, ma che è più forte di lei.
Perché Yasuko ha deciso,
individualmente, di barattare il suo corpo con un adulto, addirittura con il
suo insegnante, senza dire niente ai suoi amici, regredendo a ragazza violata,
anche se nella maniera meno professionale possibile e attraverso un ‘pagamento’
sentimentale più che monetario (lui, il ‘rude lover’ di mezza età, dovrebbe
promettere di accompagnarla a abortire, ma terrorizzato, mente e tergiversa).
Per espiare, Yasuko ha un solo modo, fare davvero la ‘prostituta di 15 anni’…
Gushing Prayer gioca con lo spazio con la stessa attonita attenzione
di Antonioni, e analizza la struttura polistratificata dei personaggi come fa
Godard in Masculin, féminin, anche se l’angoscia esistenziale (nel
primo caso) e l’umorismo e l’allegria (nel secondo) sono tra le righe. Il bianco
e nero della fotografia è affascinante e le riprese dei quattro ragazzi che
camminano nella nebbia ha la forza e la qualità di un’ icona. In molti pink
movies dell’epoca le improvvise scene a colori sottolineano gli elementi
drammatici. Questo procedimento è usato da Adachi per dare forza in più alle
scene che raccontano del destino della ‘creatura mai nata’ di Yasuko, e la luce
sarà gelida e horror o la policromia sarà più empatica e calda, a seconda della
ricezione. Visualmente il film è attraente, ma la forma e la sostanza del contenuto
sembrano intenzionalmente indigesti al pubblico frustrato nella sua ricerca di
continui ‘perché succede questo?’. I giovani attori recitano con la passione
dell’automa, e scandiscono in stile distaccato e brechtiano, oggi si direbbe
straubiano, le loro battute, passando dalla dichiarazione impersonale alla
citazione oscura, che mai si concretizza
in messaggio diretto. Certamente non si tratta del tipico ‘film di liceali
giapponesi anni 60’, visto che si cita George Bataille - l’accettare la vita
fin dentro la morte e la morte fin dentro la vita che è l’essensa della
sessualità -, nelle conversazioni più casuali. Certo il film fa capire che tra
morte e sesso il legame erotico è fortissimo (l’accettazione della vita fin dentro
la morte e viceversa, appunto) ma questo non è mai detto esplicitamente. Come
Jasper Sharp spiega nel fondamentale studio sul ‘cinema rosa’ Behind the
Pink Curtain, Gushing Prayer è un’allegoria del terremoto
politico che sconvolgeva il paese. Al centro di molte scene girate in esterni
ci sono le jeep e i tank anti sommossa che riflettono la presenza crescente
della polizia in risposta alle azioni terorrisitche dell’Esercito Rosso
Giapponese e delle altre organizzazioni armate. L’approccio obiquo, indiretto,
‘disgiuntivo’ direbbe Noel Burch, di Gushing Prayer non aiuta a
sviluppare un concatenamento emozione degli avvenimenti, ma questo è il
linguaggio delle nouvelle vague planetarie dell’epoca e chi apprezza, ancora
oggi, un approccio intellettualmente ricco alle immagini astratte, troverà
molto materiale emozionante su cui riflettere. Inoltre non dimentichiamo mai
che il ‘nervosismo dell’inquadratura’ e delle sequenze, fatte di stacchi
improvvisi e riprese sbilenche, dipende alla necessità di evitare, in un film
così concentrato sull’azione sessuale, le nudità integrali. Il ‘full frontal’ è
proibito infatti dalla censura giapponese, ed è tuttora tabù l’esposizione
della zona pubica maschile e femminile (tranne nel film d’arte). Si utilizza,
in questi ultimi anni, il ‘fogging’ per cancellare digitalmente ogni visione
proibita, provocando surrealistici slittamenti del senso: non è vietato vedere
l’eiaculazione, ma il pene che eiacula sì.
‘Gushing Prayer’, dunque, è
solo apparentemente il meno politico e rabbioso tra i waka-movies realizzati da
Masao Adachi, ex militante del movimento studentesco e allora già molto vicino
alla fazione meno suicida dell’Esercito rosso giapponese, gruppo maoista
guerrigliero istigato a entrare in clandestinità.
Infatti la battaglia campale
della piccola Yasuko contro la ‘comunità’ che manovra dall’alto (e dal basso) i
suoi tentacolari conformismi ipnotici e per il pieno controllo del proprio
corpo e della procreazione (anche se rischia di virare più verso l’anonimato e
la depersonalizzazione che verso il raggiungimento di una libertà matura e di
una appuntita soggettività desiderante),
è di una ferocia e di una violenza degna del miglior Oshima e del
miglior Wakamatsu, quello che nel 1965 era riuscito a far scandalo a Berlino
con il suo controverso ‘Kabe no naka no himegoto’ (Il segreto tra quattro
mura), un esemplare ‘pink da camera’ della Nikkatsu, che era stato prima
attaccato dallo stato e dal suo braccio cinematografico, l’Eirin, poi dalla
stessa major di Tokyo, costringendo Wakamatsu a rompere definitivamente i
rapporti e fondare la sua società indipendente, la Wakamatsu Production.
Masao Adachi, che nel
sado-movie alla John Waters ‘La rivoluzione del controllo delle nascite’ (1967)
aveva avuto la trovata di affidare a un tal ‘Marqui De Sadao’ la
sperimentazione di un metodo anticoncezionale davvero innovativo (più fai
soffrire atrocemente la donna nel coito, meno resterà incinta), è infatti un
regista del tutto speciale. Fa parte di una genia di cineasti (gangster per 5 anni,
in carcere per sei mesi) che difficilmente vedremo in giro per il mondo a spese
delle istituzioni ufficiali, come la Japan Foundation. Un nome da lista nera al
fianco di Tetsuji Takechi (il suo anti-americano ‘Neve nera’ sarà proibito dal
governo, ma difeso da Oshima e Mishima), Atsushi Jiku Yamatoya (suo l’apripista
‘Uragiri no kisetsu’, 1966), Osamu Yamashita, Kazuo Komizu detto ‘Gaira’ (il
cosceneggiatore non accreditato di ‘Su su due volte vergine’ e specialista di
ultra gore anni 80 e 90), Isao Okishima…o del papà di tutti loro, il re degli
swinging sixty nipponici, il Papa del ‘pinku eiga’, il ‘Che Guevara della
Settima Arte’, secondo la definizione di Roberto Curti e Tommaso La Selva (“Sex
and Violence”, ed Lindau, 2003), cioè Koji Wakamatsu (vero nome Takashi Ito,
classe 1936), che sempre nel 1967 affida a un Marqui De Sado il ruolo di
violentatore, dalla fantasia sanguinariamente fervida, in ‘La storia dark di
uno stupratore’. Le persone per bene non amano i pink movies. Perché? Si
chiedeva Naghisa Oshima. “Semplice: perché sono un frutto bastardo dello studio
system. Ma, attenzione! Discriminare la propria prole illegittima è il
prototipo di tutti i pregiudizi”.
Il dosaggio di sesso e violenza, anzi di sesso di gruppo e
di carneficina, contenuto a stento nelle ero-produzioni di Masao Adachi e di
Koji Wakamatsu, in film come “Mitsuryo-suro Toki” (Quando gli embrioni cacciano di frodo,
1966), ‘Okasareta Byakui’ (Angeli stuprati, 1967), versione nipponica della
famigerata strage di Richard Sperck, un giovane serial killer nordamericano che
aveva assassinato 8 infermiere), “Sex Jack” (1968), ‘Yuke Yuke Nidome No Shoio’
(Su su due volte vergine, 1969) o il profetico “Tenshi no kôkotsu” (Estasi
degli angeli’,1972) ispirato al ‘terrorista della metropolitana’ Kusa Kajiro,
che esondano dai familiari territori del buon gusto. E offrono ai loro
spettatori “un’esperienza unica, fortissima e che non ha equivalente alla luce
del sole”: quella del desiderio di cose belle ma anche del tragitto delittuoso
più cupo e spaventoso per raggiungerle. Scriveva Oshima in un famoso saggio
dell’ottobre 1970 - pubblicato nel quaderno 41 dalla Mostra del cinema di
Pesaro – che questo dosaggio di sesso e violenza tocca una zona
dell’immaginazione fertile ma molto delicata, il passaggio dalla affermazione
dell’identità individuale all’anonimità. Perché l’eroe dark ma in cerca di luce
di Wakamatsu e Adachi, per purificarsi, ha un solo sentiero: ritornare, regredendo
allo stato di feto, nella spersonalizzazione prenatale, nel grembo materno, al
tempo e allo spazio che anticipa la trasformazione della bellezza in ‘sudiciume’:
“Il desiderio di rovesciare l’individuale nell’anonimo, la brama di abbandonare
ogni sporcizia per ritornare al grembo possono essere atteggiamenti mentali
disponibili al fascismo ma non c’è connessione diretta tra l’espressione di
atteggiamenti disponibili al fascismo e il fascismo stesso. I protagonisti dei
film di Wakamatsu scritti da Masao Adachi si svegliano sempre dalla loro
‘reverie’. Il mondo che li attende è allora il mondo del pregiudizio. Fino a
quando ci sarà questa garanzia, sarò capace di credere che gli atteggiamenti
disponibili al fascismo di Wakamatsu saranno diretti non tanto verso il
fascismo ma piuttosto in direzione di una lotta contro chiunque sia oggetto di
pregiudizio”.
La giubba rossa senza passaporto. Masao Adachi
rivoluzionario
Molti cineasti nella storia
hanno pagato con la vita, il carcere, la persecuzione, l’esilio, la censura e
l’oblio la coerenza con le proprie posizioni politiche, etiche e estetiche. Non
c’è bisogno di essere dei filmaker entrati in
clandestinità (come Holger Meins e Masao Adachi) o molto vicini al
movimento rivoluzionario (come Emile De Antonio, Gian Maria Volonté, Robert
Kramer, Pier Paolo Pasolini, Alberto Grifi o Haskell Wexler) o semplicemente
democratici-radicali (come l’iraniano Jafar Panahi, i ‘dieci di Hollywood’
perseguitati dal maccartismo, Bertolucci, gli ‘akzionisti’ austriaci…).
Per entrare nella ‘lista nera
dei cineasti carogna’ basta spesso solo rifiutarsi di essere ‘embedded’,
decidere di essere onesti con se stessi e si può perfino fare l’apologia della
‘realtà’ che si vuole cambiare, o dire un grande sì alla vita: perché, senza
indignarsi, come si fa a descrivere, a comprendere e ad amare alcunché? “Nelle
mie canzoni parlo di quel che vedo, della vita che mi circonda”, come ricordava
la cantante sudafricana Miriam Makeba, scusandosi di non potersi definire
nemmeno una ‘artista politica’…
Tra i cineasti viventi più sadicamente
perseguitati, anche perché trattasi del cittadino di un paese dalla
pluridecenale tradizione democratica, anche se ‘eccentrica’, c’è il giapponese
Masao Adachi, 13 film all’attivo, figura chiave della controcultura
artistico-letteraria degli anni sessanta e settanta, del suo paese e non solo
ancora, ma poco noto al pubblico italiano, nonostante il giro festivaliero della
sua penultima regia, “The Patriot/The Terrorist” (2007), sulla vera vita di
Kozo Okamoto, un kamikaze giapponese filopalestinese che sopravvive al massacro
dell’aeroporto di Lod nel maggio 1972, e
sulla sua ‘non vita’ nel carcere, dalle torture ai sensi di colpa per essere
sopravvissuto. E nonostante il successo critico a Berlino, e l’orso d’oro vinto
dall’attrice protagonista Shinobu Terajima, di ‘Caterpillar’ (2010), di cui ha
curato la sceneggiatura, e ritorno al sodalizio ‘anti-militarista e
anti-maschilista’ con Koji Wakamatsu. Il suo abominevole reato? Essersi battuto con le armi in pugno per l’indipendenza e la libertà del popolo palestinese, cacciato brutalmente dalle sue terre e costretto via via alla diaspora o alla pratica suicida. Certo fu un ‘combattente armato’, ma sempre critico rispetto alla politica della fazione ‘Nihon Sekigun’ (poi ‘Armata rossa unita’) e al suo mistico progetto di fondare un esercito rivoluzionario marxista-leninista in Giappone. Dichiarerà a Matteo Boscarol nella sua intervista a Alias, nel 2005: “Come compresi presto in Palestina, la lotta armata non deve essere in alcun modo separata dalla vita quotidiana del popolo, ma ciò che successe in Giappone fu l’esatto contrario: l’avanguardia rivoluzionaria creò un punto di vista completamente separato dalla realtà delle masse, una specie di ‘elite della pistola’. Al contrario io sono un convinto sostenitore della sovranità delle masse: il popolo può avere il potere perché già di fatto ce l’ha”.
Oggi, più che settantenne, Masao Adachi, rilasciato dal carcere nel 2003, vive in Giappone con la moglie, una donna palestinese, profuga nel Libano e di religione cristiano-ortodossa (si è convertito lui stesso al cristianesimo per sposarla). Ha un figlio, il suo primo, nato nel luglio del 2005 e sta per scodellare il suo tredicesimo film, un progetto collettivo surreale, innovativo e a costo zero (non a caso si intitola ‘Il tredicesimo mese dell’anno’). E’ libero, ma non può più uscire dal paese. Quando si proiettano i suoi film nei festival di tutto il mondo, Adachi non può accompagnarli, presentarli né discuterli con il pubblico. Non potrà essere membro di una giuria a Cannes, Venezia, Toronto o Berlino. Gli è negato infatti il passaporto, che nel paese del sol levante non è un diritto civile, ma un premio dato solo ai cittadini modello, patriottici, meritevoli, o alle ‘leggende viventi’ che, per quanto critiche e anticonformiste siano (Oshima, per esempio)… non abbiamo mai contraffatto alcun documento d’identità… Speriamo che il nuovo governo di Tokyo, più aperto e culturalmente più attrezzato, decida di rivedere questa decisione che colpisce un filmaker che, dal 1974 al 1997, ha abbandonato il cinema e il proprio paese, per dedicarsi interamente alla militanza panaraba e emme-elle nel Fronte Popolare di Liberazione palestinese (Fplp), quello della kefiah bianca e rossa. Si occupò molto della sezione propaganda, del giornale dell’organizzazione, diretto dal poeta Kanafani, ”al-Hadaf ” (Il fine), dell’Unione degli scrittori palestinesi, ed entrò in contatto anche con simpatizzanti vari, da Vanessa Redgrave ai combattenti internazionalisti, rappresentanti dell’Ira, Raf, Eta e Br (‘i più disorganizzati di tutti’). Girò anche dei documentari e una serie di film diario, che divennero sempre più radi dopo il 1976 e lo scoppio della guerra civile libanese che lo costringeva più al mitra che alla cinepresa. I materiali di Adachi filmati in Palestina e Libano andarono distrutti durante l’invasione di Israele del 1982. Ma i ‘traditori della patria’ e i romantici poeti alla deriva, sono sempre più patriottici e umanisti di ogni sciovinista fanatico. Membro della Armata Rossa Giapponese, l’organizzazione armata di estrema sinistra riconosciuta dallo stato giapponese dopo il rapimento di un ministro, poi liberato, Masao Adachi decide di accettare la tregua e parte nel 1974 per la Palestina con una parte dell’organizzazione, di cui diventa il portavoce. Dopo 23 anni di residenza in Libano, è arrestato il 15 febbraio 1997 per violazione delle leggi sui passaporti e condannato a 4 anni di carcere assieme a 4 compagni dell’organizzazione, Haruo Wako (ex assistente alla regia della Wakamatsu Pro ed ex attore), Mariko Yamamoto, Kazuo Tohira e Kozo Okamoto, liberato nel 1985 per uno scambio di prigionieri. Dopo 18 mesi scontati a Roumieh (Beirut), il 18 marzo 2000, il gruppo (tranne Okamoto considerato profugo politico per le torture subite dagli israeliani) però viene estradato, via Giordania, in Giappone dove Adachi è imprigionato, sempre per possesso di passaporto falso (per una vecchia storia: era entrato illegamente, nel settembre del 1989, in Cecoslovacchia) e incarcerato per un altro anno e mezzo finché non ottiene gli arresti domiciliari e poi la libertà. Tutti i membri dell’Esercito Rosso Giapponese hanno ricevuto manifestazioni di pubblica simpatia da parte del popolo libanese per la loro lotta contro Israele.
Adachi riprende così a scrivere e girare film e pubblica “Cinema /Rivoluzione”, l’autobiografia della sua vita e delle sue opere, curata dal critico cinematografico militante Go Hirasawa, che esce anche in Francia. Lo spagnolo Gonzalo Lopez, nel 2008, ha lavorato su una sceneggiatura di Masao Adachi del 1966, per realizzare il remake catalano di ‘Embrione’, un horror dedicato a Roger Corman, Joe Dante, Asako Otomo e Koji Wakamatsu. Vengono organizzate in Giappone retrospettive e proiezioni dei suoi film, molto seguite soprattutto dal pubblico più giovane. E’ stata lanciata una campagna internazionale, e una petizione viene firmata da molti cineasti e da festival di tutto il mondo, affinché gli venga restituito il passaporto. Ma l’atteggiamento del governo liberal-democratico e poi quello di centro sinistra non cambia. Adesso con Abe figuriamoci.
Il cofanetto Rarovideo di Masao Adachi |
Masao Adachi cineasta
Nato a Fukuoka il 5 maggio
1939 (è sette anni più giovane di Oshima) Masao Adachi è tra i cineasti
sperimentali più colti, sessualmente scandalosi e impertinenti della sua generazione
(il corto ‘Tazza’,Wan, del 1961, una tragedia ambientata in un villaggio
isolato; e il medio ‘Vagina bloccata’, Sa’in, del 1963, entrambe co-regie
studentesche, lo impongono già come pericolo pubblico numero uno
dell’immaginario conformista). Partecipa al lungo sessantotto giapponese (che
inizia un decennio prima che in occidente) e dal 1966 diventa l’amico
rivoluzionario, la ‘guida politica’ e il collaboratore più stretto
dell’antisociale Koji Wakamatsu, uno dei registi indipendenti più ‘selvaggi’ e
estremi di quegli anni, maestro e patriarca del ‘genere pink’, il softcore
contaminato da forti ‘inserts’ rivoluzionari, tra polemiche politiche contro il
militarismo, il machismo e l’autoritarismo della tradizione imperiale e
sarcasmi contro il sadismo antipopolare del governo, spesso corrotto ma
‘irremovibile’, dei liberal-democratici.
In ‘Datai’ e in ‘Hinin
Kakumei’ (entrambi del1966), le prime regie di Adachi, affronta un argomento
tabù, l’aborto, pratica anticoncezionale allora fuorilegge in Giappone. In
‘Seizoku’ (Sex Jack, 1968), pezzo di teatro della crudeltà, e film più noir che
pink, la liberazione sessuale è sinonimo di liberazione politica, ma il
gruppuscolo di ribelli che non riesce bene a focalizzare l’oggetto del suo
rancore e del suo piacere, e che si traveste prima da bombarolo di sinistra,
poi da nazistone alla Mishima che urla ‘Heil Hitler’, e torna di nuovo infine
all’estrema sinistra, si presta al sarcasmo acido da commedia demenziale, non
solo dell’ospite, uno studente che li ha accolti perché braccati dalla polizia
(e che si vendicherà, alla fine, delle umiliazioni subite dentro casa e fuori),
ma anche dallo sceneggiatore/regista, per l’ imprecisione con la quale la
masnada ribelle traccia il rapporto reichiano tra sesso (che sa fa sempre
perché annoiati) e rivoluzione (idem?), tra orge e stupri, piaceri ‘solitari’,
estasi e palingenesi politica.
Ancora più estremo il
progetto in “Guerriglia delle studentesse” (1969), che coinvolge le violente
attività sovversive di una base rivoluzionaria annidata sulla montagna: e
quella montagna è proprio il simbolo sacro della nazione, il monte Fuji che è
anche il logo della odiata Shochiku, la peggiore delle major, la più
conservatrice, da prendere in giro in ogni occasione (le lotte sindacali degli
anni 60 avevano avuto ripercussioni anche negli Studi, e la Toho, controllata
dalla sinistra, viene abbandonata dalle star più conformiste che formano la
nuova Toho, Shin Toho).
L’uso del bianco e nero e del
colore, l’intrusione di scritte, citazioni e elementi stranianti, la musica
utilizzata in maniera conflittuale, come un ‘personaggio’, mai come come
raddoppiamento sentimentale,
padroneggiano esplicitamente le tecniche contronarrative di Godard.
Adachi è coinvolto, come
Wakamatsu (che lo scoprirà, ma se ne avvarrà per approfondire le sue analisi da
‘autodidatta rabbioso’), nell’attività politica sovversiva, ma le loro
provenienze sociali sono differenti: quest’ultimo è originario del nord-est del
paese, ha un accento ‘impresentabile’ ed è figlio di contadini. Ha inoltre un
equivoco passato, che non ha, del resto, mai nascosto, di yakuza nel quartiere
che ‘non dorme mai’ di Shinjuku (a Tokyo). Sofisticato intellettuale che ha
dimestichezza con l’adorato Blanqui, Brecht, Genet (che poi avrebbe conosciuto
in Palestina: “mi ha insegnato a lasciar parlare il silenzio”), Godard e
perfino Toni Negri, è invece Masao Adachi che, dal 1966 al 1971, partecipa alla
sceneggiatura di numerosi film diretti da Wakamatsu usando spesso pseudonimi
come ‘Yoshiaki Otani’, ‘Izuru Deguchi’ o ‘De Deguchi’. Tra questi ‘Quando l’embrione caccia di frodo’,
1966; ‘Gli angeli stuprati’, 1967, Su su due volte vergine, 1969 e ‘L’estasi
degli angeli’, 1972, dove Adachi compare anche come attore. Contribuisce a
radicalizzare lo sguardo e a innalzare la coscienza politica di Wakamatsu. Quei
film hanno un dirompente successo nel giro mondiale underground e nei festival
di punta, ma provocheranno anche controversie e polemiche, sia a Berlino (con
alcuni gruppi di femministe) che a Knokke-Le Zoute, il tempio (belga) del
cinema underground.
Collabora,
contemporaneamente, con la Sozo-sha di Nagisa Oshima, la piccola casa di
produzione indipendente che il regista di “Racconto crudele della giovinezza” è
stato costretto a fondare, in nome della libertà di espressione, dopo la
‘censura di mercato’ voluta dalla Shochiku, nel 1960, in occasione dell’uscita
del suo film più politico, “Notte e nebbia del Giappone”, radiografia
impalcabile degli errori commessi dal Partito comunista giapponese e dal movimento
studentesco (perfino dall’ala sinistra degli Zengakuren) durante le combattive
lotte di massa contro la ratifica del trattato nippo-americano. Scrive infatti,
assieme a Tsutomo Tamura e Mamoru Sasaki, nel 1968, la sceneggiatura di ‘Il
ritorno degli ubriachi’ (Kaettekita Yopparai), e vi interpreta la parte di un
poliziotto, e di ‘Diario di un ladro di Shinjuku’ (Shinjuku Dorobo Nikki), che
è una liberissima interpretazione del
‘Ladro’ di Genet. Nello stesso anno fa il capo delle guardie carcerarie in
‘L’impiccagione’ di Oshima, la dura requisitoria contro il razzismo anticoreano
dei giapponesi. Nel 1969 sempre assieme allo sceneggiatore della Sozo-sha,
Mamoru Sasaki, e al critico cinematografico anarchico Masao Matsuda, Adachi
dirige il suo settimo lungometraggio, ‘A.K.A Serial Killer’, fuori però dal suo
consueto genere d’affezione, il pink (il softcore, a differenza che in
occidente, è stato spesso usato come genere-schermo, il preferito dai cineasti
più sperimentali e estremi perché permette una maggiore libertà di fraseggio e
una radicalità d’immaginario politico ‘travestita’). ‘Aka serial killer’ però è
un inquietante documentario perché analizza e va a caccia di paesaggi non solo
poetici, quelli che il serial killer teenager Norio Nagayama avrebbe visto
prima di attuare i suoi efferati assassinii, tra le località di Nagayama,
Abashiri e Kawasaki.
Lo stesso Wakamatsu sarà il
produttore esecutivo, nel 1976, di ‘L’impero dei sensi’ il più grande successo
internazionale di Oshima, e scatenato pink esso stesso, ma anche l’opera più
censurata e perseguitata in patria del grande regista di Kyoto.
Nel 1971Oshima (‘La
Cerimonia’), Adachi e Wakamatsu (‘Angeli stuprati’ e ‘Sex Jack’) sono invitati
a Cannes dalla Quinzaine des Realisateurs e, sulla via del ritorno, Masao
Adachi, sempre più distante da quella parte dell’Armata rossa che ha iniziato
una purga interna di stile staliniano, condannando a morte 12 dei propri
membri, convince Wakamatsu (che ha appena fatto buoni incassi con ‘Tecniche
d’amore – Kama Sutra’) a fare un viaggio di lavoro in Palestina per girare un film
sulla guerra tra Israele e la Palestina, ‘facilmente vendibile’ alle
televisioni. Sarà il mediometraggio “Armata rossa/Fronte popolare di
liberazione palestinese: una dichiarazione di guerra mondiale”, coprodotto
assieme a Shigenobu Fusako, leader dell’Arg, o meglio di quella frazione del
movimento armato giapponese che ha deciso di abbandonare la lotta in patria, e
di scegliere la strada della solidarietà internazionalista (anche dopo una
tregua con il governo di Tokyo, a seguito della liberazione di alcuni
prigionieri politici in cambio di un ministro sequestrato, e con la promessa
della cessazione di ogni attività terroristica in Giappone). L’altra frazione
dell’Armata rossa giapponese, che continua con gli attentati e gli omicidi in
Giappone, e l’odissea tragica del suo agghiacciante autoannientamento, sarà
l’argomento di ‘United Red Army’, 2007, il penultimo film di Wakamatsu. Masao
Adachi non venderà mai quel documentario alle tv, “troppo estremo”, troppo di
parte (con le interviste a scrittori, profughi ma anche a dirottatori e
terroristi), aspro nel descrivere la vita nei campi profughi di Libano, Siria,
Girdania e soprattutto Jarash, e con tutti quegli aforismi ‘di fuoco’, scritti
dall’intellettuale palestinese Ghassan Kanafani (assassinato con la nipotina
l’8 luglio 1972 dagli israeliani), ma diffonderà l’opera nelle piazze, nelle
palestre delle scuole, nelle università occupate di tutto il Giappone,
attraverso il movimento delle “Truppe di proiezione dell’autobus rosso”. Poi
Masao Adachi scomparirà nel nulla, dal 1974.
E Koji Wakamatsu non otterrà più il visto per recarsi negli Stati Uniti.
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