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Fabrice Luchini |
Luchini e il testo di Moliere |
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Maya Sansa al Festival di Torino |
I misantropi pentiti |
Avremmo scoperto solo più tardi, infatti, che quella era una rara, fortunata per noi, apparizione parigina, visto che ormai la sua residenza, isolata, lontana da sguardi indiscreti, è fissata sulla costa atlantica, presso Bordeaux, in una casetta nell'Ile de Ré, posto di villegiatura chic sull'Atlantico.
E' lì che il parigino Philippe Le Guay era andato a trovarlo nel 2011 per portargli per l'ennesima volta il copione di Le donne del sesto piano. Luchini si perde sempre i copioni. E' un distratto cronico. Poi anche Le Guay si è perduto in quei labirinti di stradine sul lungomare oceanico e l'attore lo ha raggiunto in bici.
Raggiunge così il più bravo e ambizioso dei colleghi, Serge Tanneur (Fabrice Luchini), un amico irriducibile al mercimonio, un mattatore che si è allontanato sdegnoso dall'ambiente corrotto parigino ed è in esilio nella loontana provincia. Non sarà facile convincerlo a tornare al lavoro...
Serge, che ha problemi di soldi, pretende pero' di interpretare Alceste, il protagonista, almeno fifty-fifty, un giorno per uno. Poi impone di provare la parte per una settimana (e 45 minuti di film saranno una deliziosa lettura analitica e tecnicamente strepitosa del primo atto del testo), litigando sull'interpretazione, sulle fonetica, sulla ritmica, sull'accentuazione del testo.
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Il dibattito dell'interpretazione e sui valori in campo è aperto. A me sia Serge che Gauthier, che allestiscono un gioco omoerotico clandestino tra di loro soprattutto quando parlottano di donne, di come conquistarle e di come amarle, sembrano in realtà fatti della stessa pasta, inguaribimente (direbbe FilmTv, che ha stroncato il film con esagerata cattiveria) piccoli borghesi odiosi e solo abbandonando gli schemi preconcetti su quel testo, e penetrandolo finalmente tutto, Luchini ne uscirà meglio di tutti, perdendo sia Celimene, che fugge via dalla Gironda, che il viscido e subdolo Gauthier (smascherato per altro da un ruspante tassista locale, personaggio tutt'altro che secondario) che se ne torna scornato a Parigi. La tensione del duetto è comunque degna dei capolavori del genere, da grande 'buddies movie': quelle sfide all'ok corral metaforiche che sono Gli insospettabili di Manckiewicz del 1972, per l'unità di luogo e per il retrogusto sessantottino, o La Via lattea di Bunuel per la contrapposizione dicotomica tra gesuiti e giansenisti, tra politici e idealisti, tra materialisti e utopisti, tra razionalisti e "maghi", tra libero arbitrio e deterministi....
il regista Philippe Le Guay |
Secondo me da dove geograficamente proviene. Da Parigi. Ma con qualche perplessità... Una chiave obliqua di lettura del film è infatti geografico-culturale. E' nella rivalità, che è più di una contrapposizione, quasi una opposizione tra Bordeaux e Parigi. Tra la giacobina Parigi e la girondina Bordeaux (che Luchini ormai incorpora). Tra la terra del piacere, del vino, della ospitalità, del vero cosmopolitismo atlantico e la superba capitale della Francia. Bordeaux è Londra (è stata inglese per molto tempo), è Venezia, è Amsterdam, è la più in disparte rispetto alla vita continentale. E' un porto. E le France sono due, quella dei porti e quella del continente. Lo ribadiva anche un bordolese illustre, lo scrittore Philippe Sollers, che ebbe la casa di famiglia distrutta dai nazisti proprio a Ile de Ré. E che si definiva un 'maoista sudista e girondino' rimproverando al giacobinismo parigino (spietato con gli ebrei quanto prono a Petain) di essere all'origine dello stalinismo e un antenato del fascismo.
Paolo Virno |
* Luchini si sbaglia sulla fatica umanitaria esagerata sopportata dal rivoluzionario di sinistra. "Bisognerebbe essere troppo buoni, altruisti, generosi" sghignazza con sarcasmo alla moda nell'intervista. Chissà. Forse pensa che sinistra, alla Noam Chomsky, sia contrapporre una naturale 'creatività del linguaggio' all'iniquità e alla brama di sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati. Ma la negazione, che fonda la possibilità della doppia articolazione e dunque l'arbitrarietà di ogni lingua, è il denaro del linguaggio". Paolo Virno, a questo proposito, nel Saggio sulla negazione (Bollati Boringhieri, 2013), cita una frase di Carl Schmitt che sicuramente ha ipnotizzato definitivamente Fabrice Luchini: "Il radicalismo ostile allo Stato scresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana". Ma, commenta Virno, "l'azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Si impegna invece a rivendicare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione, di apportare il non davanti al 'non uomo'. Là dove questa sperimentazione va a buon fine, l'azione anticapitalistica e antistate incarna una forza che trattiene, assumento quindi le sembianze del katechon. Vogliamo dunque dire alla fine non più: io sono comunista, ma io non sono non comunista? "La negazione del comunismo diventa anacronistica, e proprio così è a sua volta negata, allorché il senso di 'comunismo' ereditato dal Novecento (idolatria dell'apparato statale, esaltazione della fabbrica, etc...) viene trasformato alla radice da lotte di classei mprontate a un civile disprezzo per il lavoro salariato e per quella banda di periferia, insieme marginale e feroce, che porta il nome di Stato.
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