lunedì 5 settembre 2016

VENEZIA 73. Gli italiani non in concorso. Indivisibili e altri quattro

Roberto Silvestri
VENEZIA

I film italiani, fuori dalla competizione ufficiale, presentati in questi giorni, e firmati Cristiano Bortone (Caffé), Irene Dionisio (Le ultime cose), Michele Vannucci (Il più grande sogno), Edorado De Angelis (Indivisibili) e dall'italoamericano Matteo Borgardt (You never had it: an evening with Charles Bukowski) sono più sorprendenti e densi del solito e dotati di un design più internazionale, incidono personaggi non evanescenti e modulano la rabbia etica del fuori campo con un efficace gioco degli spazi e della narrativa visuale, sia codificata nel genere che fuori schema. Sembra che i giovani cineasti allevati nelle scuole di cinema non solo italiane stiano tornando indietro nel tempo o deambulando al di là dei confini europei, a (ri)pescare immagini e stili dimenticati del passato ma ancora efficaci. Si può girare un Blasetti alla maniera di Lav Diaz o viceversa? O Emmer che fa Calligari? Calligrafismo più gatto selvaggio a rompere il bel giocattolo? Si possono purificare e rendere più taglienti e meno esibizionisti e plateali Sorrentino e Garrone? Dunque sono film di originale personalità e di feconda tensione formale. Edoardo De Angelis in Indivisibili (che sembra il vero successo della Mostra visto che dalle Giornate del cinema volerà presto a Toronto e a Londra) riplasma la retorica della napoletanità marginale, che è difficile da maneggiare dopo Gomorra, Capuano o Di Costanzo, senza far della cattiva maniera e attraverso un lavoro certosino sui dettagli e sulla recitazione uguale/diversa delle due stupende protagoniste, le gemelle siamesi che non sanno bene se masochisticamente continuare a vivere insieme o se affrontare la vita sole solette, si lascia attrarre dalla ricetta cormaniana (azione, yacht, violenza sotto le righe, detriti del rock, donne forti e determinate, movimento, sacrilegio, musica, scene al limite dell'horror, esplosioni emozioni...) ma non dal magnetismo imperante in tv del “cattivismo” e delinea una strategia di liberazione femminista, anzi doppiamente femminista, appassionante.
Cristiano Bortone, che del gruppo è il più esperto, anche per merito dell'anagrafe, maneggia una tastiera internazionale ambiziosa e il suo design è cosmopolita arrivando a sfiorare il gusto sinfonico dei paesaggisti cinesi della quinta generazione (il “sorgo rosso” questa volta è una insuperabile qualità di caffé, sofisticata, ma grazie a madre natura) mixato all'immagine scabra del disastro postindustriale, alla Wang Bing, in un film in tre episodi che sembra leggero ma è insostenibile, schiacciato da tutto il peso del mondo. La “no future generation” italiana, il razzismo e il risentimento etnico producono sadismo contaggioso e stupidità di massa che non sfuggono all'occhio clinico di Bortone, dai crimini dei nuovi ricchi cinesi alla “brutalità oscena” dei fiamminghi proletari e degli immigrati arabi-iracheni, altrettanto emarginati (descritti con la grazia nevrotica di Nouri Bouzid) alle coreografie criminali nelle torrefazioni prestigiose di Trieste. Tutto questo fa di Caffé (evento speciale delle Giornate degli autori), un film non qualunque, e non solo perché indica una linea di tendenza coproduttiva con Pechino ghiotta e necessaria, ma anche perché è un oggetto pericoloso di tipo mitteleuropeo, anche senza complicare le cose come fa Jarmush con le sigarette. Non a caso il fraseggio è privo di orpelli, loosiano, omaggio al panorama giuliano, uno dei poli geografici che accendono questo gioco visivo triadico sul tema della droga caffé e delle sue fasi di assaporamento (amara, aspra e alla fine profumata, nonostante le multinazionali che lo gestiscono, omologano e sfruttano).

MirkoFrezza (a sinistra) in "Il più grande sogno"
Il girovagare interno e intorno alla tradizione nazionale, quella più esportabile e recente ma anche quella più antica e dimenticata ci porta a Michele Vannucci che si confronta con l'ultimo Claudio Calligari, e se ne distacca anche, in Il più grande sogno (sezione Orizzonti). Periferia romana, epoca (ma non legami con) Mafia capitale. Mirko Frezza, “bandito” massiccio e dai lunghi capelli, racconta e sa mettere in scena con disinvoltura la sua vita “in stato d'allarme”, tra ambiente e redenzione, e ci dice che le sue opere, sia di bene che di male, possono trovare una sintesi se ci si dedica all'attività politica di base, presso un comitato di quartiere che lui gestisce agevolmente, grazie al radicamento nel territorio, che più profondo non si può, perché non è mai stato un infame. La sua riabilitazione voluta da una amica che si dà da fare a Corviale, e bisogna essere davvero ostinate, coinvolge un amico di furti e rapine, sulle prime perplesso, Boccione, che poi si affezione al progetto stile Michelle Obama di dotare la zona di un orto comune per piantare i pomodori ma poi viene inquinato e messo in discussione sia dai burocrati del comune (epoca Alemanno, immagino) sia da più profondi legami di sangue. La famiglia naturale è una brutta bestia, ci dice il film. Bandito, figlio di bandito, trova proprio nel padre, coatto drastico e irriducibile, sempre nei guai, e finalmente al di là della retorica, il suo peggiore nemico.

Cristina Rosamilia in "Le ultimne cose" 

Chi si collega in qualche modo alla lezione civile che va da Francesco Rosi ad Antonio Morabito (Il venditore di medicine), cioé al cinema di denuncia, mettendo al microscopio questa volta il microcosmo “banco dei pegni”, per aggredire il macrocosmo bancario così pervasivo nella nostra vita di tutti i giorni e devastante, non può non complicarne l'andamento neorealista, visto che il mondo cambia freneticamente anche nella nostra percezione della cronaca vera catturata nei suoi picchi emozionali. Dunque si può ricorrere alla lezione necrorealista di Matteo Garrone, raffreddandone magari le punte più espressionistiche ed esibizioniste, come fa il film scelto dalla Settimana della critica, di Irene Dionisio (Le ultime cose), allieva di Daniele Segre e dunque incapace di commettere peccati di lussuria visiva o di cinismo etico. Insomma Bresson. Anche perché le sue collaboratrici sono di idioma francese, Aline Hervé (montaggio) e Caroline Champetier (fotografia). Credo che sia inoltre il primo film, da molti anni, che riesca cogliere tutta la potenza recitativa del più introverso tra i mattatori del nostro teatro, Roberto De Francesco, una vera forza della natura subliminare, che qui è il cattivissimo Sergio, mefistofelico quanto più la sua recitazione è a levare e non ad aggiungere e soprattutto è finalmente prismatica. Chi deve truffare le anime perdute del banco dei pegni, dentro e fuori l'edificio, dove si aggirano i malandrini del prestito, deve essere infatti capace di indossare uno spettro di personalità. La maestria di Irene Dionisio anche come sceneggiatrice si esprime bene perché riesce a dotare i suoi personaggi di doppia e tripla personalità, dal trans Sandra,c ripudiata dalla famiglia, al giovane Sefano combattuto tra ossessione d'amore e culto del posto sicuro a Michele, ex facchino disperato che accetta di essere quel che non ha mai voluto diventare.


Charles Bukowski
Un altro evento, davvero speciale, delle Giornate degli Autori è l'incontro ripreso nel 1981 dalla giovane corrispondente a Los Angeles di Repubblica Silvia Bizio, spedita una bella notte in casa di Charles Bukowski per una intervista. Un incontro finito alle ore piccole e accompagnato da buon vino rosso, alla presenza di operatore video, fonico, e amici dello scrittore. Quei nastri videomagnetici, utilizzati in minima parte per il pezzo, erano poi stati riposti in scatole introvabili nel garage e che, ritrovati trent'anni dopo e rivisti e studiati, sono diventati il materiale di partenza per un film di 50 minuti, ripensato dal figlio di Silvia Bizio, e montato con la collaborazione di Cristina Sammartano, aggiungendo quadretti odierni di Los Angeles, ripresi in super8, e poesie lette fuori campo. L'idea di fondo di Matteo Borgardt, dando un'altra forma al materiale di repertorio “grezzo”, è stato quello di piazzarci, come la mamma Silvia, dentro il salotto di Bukowski e di Linda Lee Beighle, e farci girare per la sua casa di San Pedro, California, terrazzo incluso a sentire aneddoti e “perle di saggezze” alcoolicamente scorrette, ridendo con i suoi amici e scoprendo cimeli, come la famosa fotografia in bianco e nero di Hemingway che dorme, sbronzo come una cucuzza, su un divano. Foto che nessuno “avrebbe mai e poi mai dovuto vedere”. No, non è Hemingway lo scrittore prediletto da Bukowski. Quando diventi più grande lo abbandoni subito. Il suo quartetto d'affezione è invece composto da chi ha altri ritmi di vita. Céline, John Fante (“ha raccontato il mio quartiere, i locali che frequentavo, la gente che amavo e con cui litigavo... mitizzavo la finestra della stanza nella quale io credevo scriveva i suoi capolavori), Dostojevski e D.H.Lawrence. E poi gli scrittori non gli piacciono. Non li frequenta. “Parlano solo di sé stessi e citano le frasi delle loro poesie e dei loro libri a venire. Insopportabili”. Il sesso, invece? “Lo mettevo di qua e di là, perché se no non li vendevo i miei romanzi”. E ride sornione, dopo aver premesso: “Ma non credere troppo a quello che dico”.             

domenica 4 settembre 2016

VENEZIA 73. "Frantz", Ozon profumato di Lubitsch


Mariuccia Ciotta
VENEZIA

Già Lubitsch aveva trasferito su grande schermo la pièce di Maurice Rostand (L'homme che j'ai tué) con il titolo di Broken Lullaby (L'uomo che ho ucciso, '32), folgorante, star Lionel Barrymore. Ed è stato un azzardo per François Ozon dirigere il remake, Frantz (concorso).
Girare in tedesco, fuori dalla Francia “mi ha costretto a reinventarmi” dice il regista, ed è una fortuna perché al posto dell'effervescente satira sessuo-sociale coloratissima del suo cinema ha scelto un thriller emozionale in bianco e nero, aspirante al Leone d'oro.
Altro paradosso contro la guerra, come Hacksaw Ridge di Mel Gibson, Frantz si chiede se è possibile piangere sulla tomba di un tedesco ucciso sul fronte della prima guerra mondiale.
La storia è quella del giovane francese Adrien (Pierre Niney, Yves Saint Laurent), suonatore di violino, sensibile all'arte, che va a trovare in Germania, piccola città di provincia, la famiglia di Frantz, il nemico ucciso, con l'intenzione di chiedere perdono. Era così bello e così indifeso nella trincea, e lo guardava attonito, ma Adrien sparò e cadde su di lui, amorevolmente...


Ozon si muove sulle corde dell'investigazione morale dentro un'atmosfera sospesa e misteriosa, e scava nello sguardo dell'eterea Anna (Paula Beer), la fidanzata inconsolabile, che divide la casa con i genitori di lui. Adrien prenderà il posto della sua vittima, sarà il doppio di Frantz, e farà innamorare chi è destinato a odiarlo dispensando ricordi (flashback “realistici” a colori) di un'amicizia mai nata.
L'odio reciproco tra tedeschi e francesi si materializza, i primi brindano alla morte dei figli con la birra, i francesi con il vino. Macerie e risentimento sono il composto chimico che spiega la futura Germania di Hitler. Ma Ozon svicola e va verso il melodramma, l'amore che divide, e il passato che non si può modificare. Un po' Il nastro bianco di Haneke, ma con una sottile linea erotica che volteggia non solo tra Anna e Adrien. C'è anche Frantz, lo spettro, oggetto del desiderio di entrambi. E' la morte che alimenta il desiderio di vivere, come il quadro di Manet, “Il suicidio”, esposto al Louvre, luogo frequentato dal triangolo di Bertolucci in Dreamers, e adorato dal trio di Ozon. Da lontano si vede Truffaut, Jules e Jim.

VENEZIA 73. Il vero Rocky. Bleeder, fuori concorso

Il campione dei pesimassimi Chuck Wepner, il vero Rocky


Roberto Silvestri

VENEZIA


Liev Schreiber non l'ho davvero riconosciuto, se non dopo i titoli di coda, dietro il suo perfetto travestimento anni settanta da baffuto “Bayonne Bleeder” campione di pugilato bianco del New Jersey, categoria pesi massimi. Segno che questo film realizzato con i boxeur, ma non “sul pugilato d'epoca Cassious Clay e Don King”, qualche originalità la possiede, non se la mena coi gadget e la moda anni 70, ancora meno di American Hustle, di cui ruba il luminismo tonale beige freddo con rosse striature, nonostante la grande tradizione, con annessi stereotipi, che collega la boxe al cinema e che in The Bleeder (fuori concorso), vengono ricordati da continui frammenti di Una faccia piena di pugni, l'odissea tragica di Mountain Rivera/Primo Carnera raccontata da Ralph Nelson con Anthony Quinn in un famoso film in bianco e nero del 1962. La gloria e la decadenza. Il circo e la mafia. La criminalità e gli incontri truccati. La famiglia che protegge ma non basta. Perché poi divorzia dalla moglie Phyllis (la mora Elisabeth Moss) sarà con la bionda Linda (Naomi Watts), di cui condivide la passione per l'alcool, da mescere agli altri, che la sua vita finirà. E il manager senza scrupoli. La ricchezza improvvisa e la fama che scodella donne a volontà e che fa vacillare le migliori coscienze. Il tunnel della droga. Ma soprattutto lo spettacolo pugilistico offerto dalla categoria dei boxeur incassatori. Con tanti, benedetti, inestetismi, da arte brut, altro che l'iperrealismo patinato di Toro scatenato. Quelli che sanno resistere, che non crollano (quasi) mai, che finiscono i match in piedi, anche se sanguinanti, che potrebbero morire sul quadrato sono i campioni subliminali del pugilato (Vito Antuofermo, ancor più di Wepner).
Naomi Watts e Liev Schreiber
Il “sanguinante”, questo è il significato di The Bleeder. E questo era il nomignolo (poco gradito) nato nel quartiere che perseguitò a vita Chuck Wepner, un peso massimo che vinceva o perdeva sempre soffrendo e che gli annali ricordano perché fu l'unico sfidante bianco a resistere (in un combattimento avvenuto il 24 marzo 1975 presso Cleveland, a Richfield, e valevole per il titolo mondiale) per quasi tutte le 15 riprese a Mohamed Alì, che Wepner riesce perfino a mandare al tappeto (probabilmente aiutato da un micro sgambetto invisibile). Alì si era appena riconquistato la corona dopo aver battuto tra la sorpresa generale George Foreman a Kinshasa nel 1974. Immagini di repertorio che ovviamente si vedono nel film e che nuocciono gravemente alla credibilità dell'attore che interpreta (riconfigurandolo male, e ingrassandolo perfino) Alì (la stessa caduta di credibilità e verosimiglianza quando un attore cerca di impersonare Stallone...). 
Al canadese francofono Philippe Falardeau, Schreiber affida la regia (pulita, senza fronzoli, dinamica, tonica come quando si è in forma sul ring) del suo progetto che ricapovolge, dalla storia al Mito, e dal Mito alla cronaca vera, l'epopea di Rocky Balboa raccontata da Stallone nel capitolo 1, più volte Oscar nei primi anni 70 grazie a Avildsen. Il vero Rocky era Wepner (anche se, ci dice il film, Stallone e la United Artists non hanno dato neanche un dollaro per comprare la storia al vero Rocky, e forse Cimino l'ha fatta crollare per vendetta). L'eroe che perde, ma resiste. 35 vittore. 14 sconfitte. Due pareggi. Due soli ko in carriera, ma ben otto rotture del naso e 313 punti di sutura. Tra i più spettacolari e feroci incontri della storia, da quando i pugili indossano i guantoni, quello contro Sonny Liston, che lo ha battutto a Jersey City alla 10a ripresa il 29 giugno 1970. Se ne fa solo cenno. Poi, dopo Alì, il declino. Un po' di tempo in galera per spaccio di cocaina. Un matrimonio finito e una totale incapacità di Wepner di vivere al di fuori del quadrato, senza saper distiguere le persone che gli vogliono bene (Phyllis, la moglie, il fratello, la figlia, il nipote...) da quelle che lo sfruttano e lo portano a combattere, a fine carriera, con i campioni di wrestling e addirittura con feroci orsi giganti.  
Il vero Rocky e il finto

VENEZIA 73. Mel Gibson in grande forma e la guerra giusta del soldato Desmond



Mariuccia Ciotta
VENEZIA

Fuori concorso ma in vetta alla 73ma Mostra di Venezia, Hacksaw Ridge diretto da Mel Gibson con un cast tutto australiano, a parte il protagonista, Andrew Garfield, già allenato ad arrampicarsi sulle pareti nelle vesti dell'Uomo ragno, e qui sulle corde intrecciate di una scala che porta all'inferno di Okinawa nelle vesti di Desmond Doss, il primo soldato disarmato della storia a meritarsi la medaglia d'onore del Congresso.
Il sangue piace all'attore-regista di Braveheart e La passione di Cristo, autopsia di fotogrammi aperti, vene sanguinanti e arterie che schizzano l'essenza umana, liquami e materia cerebrale, pance sventrate, arti mozzati... Seconda guerra mondiale. Eppure Gibson fa ricorso al Mago di Oz, al suo incanto, per raccontare la storia vera di Desmond Doss, avventista del settimo giorno, che si arruolò con la promessa di non toccare il fucile e per questo finì sotto corte marziale, prima di ottenere il ruolo di “soccorritore militare” tra il disprezzo, e i pugni, dei commilitoni.
Sotto il cielo radiante dell'isola giapponese, i fantasmi ballano insieme ai caduti di Iwo Jima, ai quali Clint Eastwood ha reso omaggio, dalla parte dei “musi gialli” con le sue lettere zeppe di lacrime, e che Mel Gibson, a sorpresa, fa salvare dal suo supereroe non da fumetto. Oltre ai suoi compagni, Doss soccorse anche due nemici.

L'incrocio con Salvate il soldato Ryan è non tanto nella carneficina, scrupolosamente documentata da Gibson, ma nella luce calda del fuori campo (di battaglia), nell'America di F.D. Roosevelt con le sue promesse oltre la Grande Crisi di casette color pastello, girl e boy biondi, e paesaggi aperti come la Virginia di Desmod Doss. Non si uscì dalla Depressione grazie alla “guerra giusta”, come si racconta, e lo vediamo attraverso gli occhi di un ragazzo obiettore di coscienza, che il sabato, anche sul fronte, non “lavorava” (“ma i giapponesi sì”) e che si rifiutò di uccidere. Il New Deal finì lì. Dorothy non tornò mai più nel Kansas. Gibson lo sa e dispiega l'assurdo. Entrare in guerra senza sparare un colpo, combattere il “demonio” senza mai assomigliargli.
In una cittadina gioiosa dai cromatismi brillanti, Desmond bambino quasi spacca la testa per gioco con un mattone al fratello, quasi spara con la pistola al padre (Hugo Weaving, Matrix) alcolizzato, violento ma buono, sotto shock per la Grande guerra, e, innamorato dell'infermiera che non può che chiamarsi Dorothy (Teresa Palmer, Lights Out) entra nell'esercito per “servire la patria”, ma senza il rischio di far male a qualcuno. Il film segue il canone del genere con il sergente grintoso (Vince Vaugh) “signorsìsignore” di Full Metal Jacket nella versione scanzonata di Heartbreak Ridge e racconta di come il “codardo” finì per salvare 75 feriti dalle baionette del nemico, calando uno a uno i soldati con una corda a cappio in una notte, stringendo la bibbia al petto, giù per il dirupo fino alla postazione della 77ma divisione di fanteria, mentre i giapponesi infuriavano tra i cadaveri alla ricerca dei sopravvissuti.
Gibson fa fuoco e fiamme in un parossismo che diventa irreale, su un terreno cosparso di umanità, in controluce stroboscopica e ritaglia nel buio la faccia di Andrew Garfield, posseduto da una forza sovrumana, non fanatico religioso né pacifista integrale, soltanto “soccorritore”. Desmond sfilerà tra le ali di un esercito sfinito, i compagni anneriti dalle bombe, come un angelo. Forse anche in memoria del padre del regista che si trasferì dallo stato di New York in Australia per evitare ai figli la guerra (neanche “giusta”) in Vietnam. Sui titoli dei coda di uno dei film più belli visto al Lido, il vero Desmond Doss ci dice che davvero chiedeva a dio di trovarne “ancora uno” di quei corpi maciullati e ancora vivi.






VENEZIA 73. L'età del ferro canterino. "Spira Mirabilis" di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti







Roberto Silvestri
VENEZIA
Fuoco, terra, aria, acqua, terra, etere. Il cinema, presocratico ma anche quello “platonico”, si fa con gli elementi primordiali come attori che, come sappiamo bene in questi giorni di terremoti, guerre, tsunami, catastrofi ecologiche e buchi d'ozono, sono indocili a considerarsi “non protagonisti”. “Il fantastico nasce dal naturale”, direbbe Robert Bresson.
Primo film italiano in concorso, Spira Mirabilis non presuntuoso ma ambizioso, prova a collegare tutti questi elementi in una suite visiva che tende alla sinfonia, non proprio orecchiabile, magari post dodecafonica, a consonaza non garantita. Come se si dipingesse un murales sonoro con suoni “concreti”, vivi. Cinque storie parallele che si parlano, si intrecciano, si fondono. Eppure la geografia è “posteuclidea”. Kyoto/Shirahama, Parigi, Berna, Milano, Sud Dakota. Cosa mai possono avere in comune? 
Marina Vlady recita integralmente, non sempre fuori campo, il racconto di Borges L'immortale. Se nulla è reale e l'uomo è reale, l'uomo è nulla e dunque è immortale. I nativi Sioux raccontano la resistenza al materialismo volgare del popolo Lakota, da Wounded Knee a oggi: “vedi quella montagna, per noi quello è un Duomo sacro, sia gotico che barocco, sia postmoderno che neoclassico. Anche perché sotto vivono i corpi morti dei ribelli che lottarono per la nostra indipendenza”. Gli artigiani che tutelano il Duomo (gotico) di Milano riportano al bianco originale le statue deturpate dall'inquinamento. Le rendono eterne. 

la medusa eterna 
Lo scienziato-canterino Shin Kubota, stupisce i colleghi biologhi di tutto il mondo raccontando – e poi li fa ridere cantando – i miracoli di una medusa immortale, la turritopsis (immortale, a patto che un pesce non se la mangi) che ringiovanisce a cicli infiniti. Due musicisti sperimentali svizzeri, Feolix Rohner e Sabina Scharer, da trent'anni studiosi degli steel pan, come lo Hang e il Gubal caraibici, inventano, costruiscono e suonano strumenti di metallo dalle sonorità ancestrali capaci di scodellare ris
Un membro della tribù Oglala Sioux
onanze di Helmholtz tali da traghettare verso la vita umana i neonati ancora immersi nel torpore sordo non più che vegetale....
E' la prima vera sorpresa positiva del cartellone Spira Mirabilis. E' vero che si vende di più la narrativa, ma anche la saggistica ha la sua importanza, il suo fascino e scodella duelli altrettanto appassionanti tra buoni e cattivi. O, come in questo caso, tra l'uomo che si confronta con i suoi limiti e le sue aspirazioni. Con l'immortalità. Per un Lakota l'uomo immortale è l'uomo che cancella i segni della sua vita. Che fa il possibile per non farsi ricordare. E se gli riesce dimostra di essere stato un uomo buono. E' vero che viene ricordato, di generazione in generazione, Cavallo Pazzo, il condottiero immortale per il suo coraggio e la sua determinazione nel lottare i visi pallidi. Ma fu guerrigliero controvoglia. Il suo massimo desiderio era l'anonimato. La vita pacifica. Siamo agli antipodi dell'ossessione per la fama dell'Occidente. Per l'essere "vincenti". Per i 15 minuti di celebrità. Solo la non celebrità rende davveri eterni.
La storia del cinema ha emarginato via via il “film-saggio”. Non fosse per J.L. Godard, Chris Marker...Perché il giro d'affari è microscopico. Ma per i festivalieri non dovrebbe essere un problema. Non sono business-men. Però il popolo del Lido rimane un po' frastornato, quando l'azione non ingrana. O tarda a scattare. Qualcuno, pochi, lasciano la sala.

Martina Parenti e Massimo D'Anolfi
Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, scoperti a Locarno, ci schockarono all'esordio, nel 2007, con I promessi sposi, un horror dove i mostri erano gli organizzatori del culto e del rito matrimoniale religioso. I loro film d'esplorazione clonano il brevetto “Errol Morris”. Nulle le indicazioni segnaletiche (come voce fuori campo o le didascalie) molte le sovrapposizioni d'immaginario enorme la responsabilità che si lascia allo spettatore per ricomporre il puzzle. Si arriva al concetto, al cuore magmatico di un film, senza mai partire da preconcetti, perfino quando oggetto d'analisi è un poligono di tiro radioattivo estremamente pericoloso per i sardi (Materia oscura, 2013). I loro film sono viaggio avventurosi. E come tutti le avventura esigono molta pazienza. Lunghe attese, prima del brivido. C'e chi considera però il metodo di indagine a coppia impossibile (Nanni Moretti per esempio). Tra i Coen e i Taviani, i Wachowski e gli Straub Huillet e i Gianikian e Ricci Lucchi, ci deve essere sempre uno che comanda! L'autore è uno solo, specialmente in un'arte così collettiva. Invece se D'Anolfi si occupa della forma visiva e Martina di quella sonora, infine a dirigere sono addirittura in tre lui, lei e la loro fusione/interferenza. Un colore ottico sovrimpresso a un timbo acustico, cosa produrranno. Lo saprete solo se andrete a vedere Spira mirabilis che ha portato finalmente la coppia (anche nella vita) nella competizione principale di un grande festival internazionale. E a Venezia un doc d'arte, addirittura italiano (anche se qui si coproduce con la Svizzera), può persino vincere.  

sabato 3 settembre 2016

VENEZIA 73. Il western olandese e il papa americano. La giornata cristiana

Roberto Silvestri
VENEZIA

Ieri giornata interamente dedicata ai problemi dello spirito che, come si sa nella cultura cristiana, sia cattolica che protestante, sono strettamente collegati a quelli della carne, intralciando la retta via verso al salvezza e la pace eterna dei credenti vacillanti.
Intanto un lungo, finto, western in quattro capitoli, dai nomi testamentari di “Genesi”, “Esodo”, etc, che potrebbe essere il prototipo di un filone (senza troppo futuro) “western calvinista”, cioé l'epopea olandese, anzi paneuropea Brimstone di Martin Koolhoven (in concorso). Ci racconta (però senza disciplina stilistica, rigore narrativo e lucidità etica) e abusando della libertà gore e splatter che Tarantino ha sdoganato, ma che lui sa controllare meglio, e attraverso lo scontro mortale tra un padre incestuoso e killer e sua figlia in fuga (la muta e non sempre guerrigliera Dakota Fanning), tra il Predicatore (Guy Pearce) e Liz, tra il lupo e l'agnello, l'odio e l'amore, il diavolo nero e la dea bionda, qualche cosa di poco conosciuto sui meccanismi interpretativi letteralisti della Bibbia. Quelli che hanno condotto la Chiesa Riformata Olandese, in diaspora coloniale, e certe sue componenti perverse e maligne (sintetizzate da Robert Mitchum in Il fiume dell'odio di Charles Laughton) non solo al bigottismo e al fondamentalismo più pericolosi, con annessa sottomissione totale della donna, ma addirittura all'abominio dell'apartheid e del segregazionismo razziale boero, giustificati dalle parole del Signore (con annesse citazione dei versetti specifici), così come l'incesto e la pedofilia, misteriose vie di trasmissione patrilineare del potere, per sfuggire al fuoco dell'Inferno e salvaguardare, nel contempo, la purezza (da non contaminare con estranei) della razza prediletta, che è solo quella colorata di bianco. Alla fine, “unhappy end” come si usa in Europa, vince il maligno (nei panni di uno sceriffo screanzato e criminale) e dunque se il film ha abusato di sostanza tossica immaginaria e anche un pochino di pornografia della violenza, è colpa dell'America e dei profughi europei, i più bastardi e proletari, che l'hanno colonizzata.
Ma chi ha visto Safari sa che non è così. Che il marcio parte proprio dal cuore ricco dell'Europa. Il documentario del veterano austriaco Ulrich Seidl segue infatti in Sudafrica dieci spudorati cacciatori borghesi austro-tedeschi, uomini e donne, vecchi, giovani e di mezza età, tutti in divisa e casco coloniale, che sembrano usciti dal film Il conte Max e che, ospiti di un resort costoso e lussuoso, cacciano nel latifondo privato del proprietario, incurabilmente nazistoide come sua moglie, ogni genere di animale non feroce, soprattutto bufali, impala, gnu, antipoli, zebre e giraffe, li abbattono (“non mi piace usare la parola uccidere, perché gli animali si uccidono nei mattatoi”) e spiegano perché, come e con quale tipo di fucile e proiettile trovano sfogo (perfino erotico) nell'esecuzione di questi esseri viventi ma “inferiori nella piramide della creazione”. Si fotografano così con la carcassa del “selvatico” dopo essersi congratulati per la precisione del loro colpo fatale, tagliano e conservano le pelli dei malcapitati (particolarmente spesse quelle delle giraffe), ne mangiano la carne (“il filetto dell'antilope nera è delizioso, si taglia come il burro, altro che le mucche della Carinzia, sarebbe come paragonare la notte con il giorno”) e non mancano di sentimentalismo animalisti quando affermano: “i leoni e i leopardi non li cacciano, dicono che si stanno estinguendo”.
Invece fuori gara è passato, ma è ancora difficile da giudicare, l'esperimento di Paolo Sorrentino nella serie tv. Cioé le prime due ore di Il papa giovane, che ipotizza l'ascesa al soglio pontificio del primo pontefice nordamericano, ex orfano oggi Pio XIII (interpretato per la verità dalla star inglese Jude Law). Sarà un pontificato rivoluzionario e scandaloso (come sembra dalla prima parte del lavoro) o solo gesuiticamente più che corretto (come potrebbe far presagire la seconda parte, e i movimenti del pontefice vero?). Pio XIII sarà un santo o un giustiziere? Farà fuori la nomenclatura nera, la curia romana, che da sempre governa il Vaticano e controlla il vertice (o lo annichilisce se necessario o costringe al ritiro)? O saprà solo sostituirla con una struttura più efficace e moderna?

Più ancora del Congresso di Washington, del Texas solitario e tenebroso o della sede di un network tv, San Pietro e dintorni è il set prediletto per osservare all'opera il Male (dove il Bene dovrebbe regnare) e i cattivi, dove meno te li aspetti. Ci offre un imbattibile catalogo delle malvagità umane in azione, tra lobby potenti, ipocrisia anche sessuale, mercimonio, gruppi di potere scatenati e in conflitto, coperture di attività criminali e opere pie esenfisco. Le vie del Signore sono, infatti, misteriose e dunque, come spiegherà Silvio Orlando piangente, nel ruolo del cardinale più maligno, e ci sembra di sentire Andreotti, “per fermare sua santità sarò costretto a fare cose molto malvagie”. Vedremo quali. L'infallibilità del pontefice ha infatti funzionato finché un papa Pio definì il duce “l'uomo della divina provvidenza”. Oggi che Francesco apre ai gay, lui stesso si schernisce: “chi sono io per giudicare”? Non siamo più ai tempi del primo papa sciatore e di Papocchio, quando il tono della satira radicale, ma ben al di qua dell'oltraggio, accontentava sia clericani che anticlericali. Fu Woytila la prima super star del Vaticano. Il Santo che ha polverizzato, grazie anche a Solidarnosc, la cortina di ferro e senza nascondersi dietro una maschera, se non di fard, come il suo omologo messicano. Ma i traffici loschi di Marcinkus, la connivenza con Videla e tutti gli anti comunisti del mondo, la rete dei vescovi e dei sacerdoti pedofili, la santificazione di criminali, come il clero latifondista spagnolo durante la guerra civile, hanno via via quasi distrutto la Chiesa cattolica negli ultimi anni e oggi per ridargli dignità e autorità etica c'è bisogno anche di un serio contributo artistico. E chi meglio del nuovo Fellini, diversamente a-clericale, come Paolo Sorrentino potrebbe aiutarla? Cosi il film ricorre a un continuo cambio di registro, passando dal grottesco al gangster movie, dalla satira al giocoso, dal mistico all'onirico, dal femminista (la nomina di Diane Keaton a segretario particolare) al morettiano (la partita di calcio delle suore), dal mafia-movie al digitalmente spettacolare (riempire piazza san pietro così è più facile). Questo Papa sembra maneggiare tutte le tastiere possibili e immaginabili del bene e del male. Ottimo escamotage per strutturare una serie tv (che di malvagità si inebria sempre) che rispetto al film per il cinema può percorrere nei suoi segmenti variabili sorprendenti, infinite e perfino sovversive. Mentre il film di due ore obbliga alla sintesi e alla scelta del punto di vista, la serie permette una libertà infinita di fraseggio. Vedremo nel prosieguo quale virtuosismi papa Law potrà permettersi. Lui che sembra molto esperto in scienze della comunicazione. Il suo migliore affondo è quando ridicolizza il suo capo marketing, una bionda in carriera che viene da Harward (e giustamente un cattolico prende in giro una università fondata dai protestanti), smaniosa di stampare la sua effigie ovunque, perfino sui piatti, contrapponendole la strategia del mistero di Bansky, Mina, Salinger, Daft punk e Ferrente: più si scompare e più ci si sacralizza. Il subcomandante Marcos (oltre che il lottatore mitico della cultura messicana, El Santo) ne sono i più radicali esponenti. Un solo dubbio. Forse per spiazzarci. Ma davvero le guardie svizzere salutano proprio come i carabinieri e i corazzieri?      

venerdì 2 settembre 2016

VENEZIA 73. "American Anarchist" di Charlie Siskel. La lotta armata negli Stati Uniti per fermare l'aggressione in Vietnam.



Roberto Silvestri

VENEZIA
Siccome un numero crescenti di neonazi o fuori di testa, e non solo a partire da Colombine, entrano nelle scuole e sparano ai compagni di classe e ai prof (perfino a quelli che non se lo meritano) e siccome altrettanti ragazzi e ragazze di origine araba o cultura islamica sono attirati in numero crescente dalla guerra santa rivoluzionaria e dall'Isis, molti si chiedono se non vada capovolto lo stato (politico-economico-sociale) delle cose nel mondo. Se l'1% controlla il mondo in maniera piuttosto autoritaria, c'è puzza di Isis e di neonazi proprio in quell'1%. Occupy Wall Street e Sanders, per esempio, lo sospettano. E vorrebbero una globalizzazione, ma dal basso. Però c'è ancora qualche eccentrico che parte alla ricerca di un "cattivo maestro" che abbia ispirato, aiutato e plagiato la piccola grande  criminalità diffusa di oggi. E che dunque si deve pentire dei suoi peccati. Un tempo era Stephen King. Poi i videogiochi soprattutto disumani cioé giapponesi. Poi i classici del marxismo, forieri di gangsterismo planetario e Toni Negri e magari Chomsky, Assange e Snowden. Adesso è il giorno di un professore (morto a 65 anni l'anno scorso, poco dopo la realizzazione diquesto film che gli hanno dedicato) che si è occupato per tutta la vita di studenti disabili insegnando in Tanzania, Asia e America, e poi è andato a vivere in un piccolo paese della Francia per nascondersi al mondo. Il suo peccato era aver scritto in gioventù un libro sulfureo. Di aver compiuto, come Lord Jim un gesto che indirettamente aveva messo a rischio la vita di molti uomini (ma non più della Bibbia e diqualunque altro volume). E di averci guadagnato sopra pure dei soldi, anche se non più di 60 mila dollari, nonostante quel suo libro sia ancora un bestseller. Ma partiamo dal regista che ha raccontato la vita e le opere di questo "cattivo mestro".
Ex avvocato, autore di documentari e di commedie per la televisione, celebre per Finding Vivian Maier, sulla fotografa sconosciuta, consacrata solo dopo la sua morte, e amico e produttore di Michael Moore, Charlie Siskel vive a Los Angeles e viene da Chicago dove è nato nel 1969. Troppo tardi per vivere sulla sua pelle, ma non per accedere alla "sostanza conoscitiva" del suo nuovo film, e cioé studiare, cosa è sucesso in America nei cinque anni precedenti, dalla rivolta di Berleley del 1964 a My Lai e alla nascita del Movement, dei Weathermen e del Poter Nero, dall'eccidio di Kent, con gli studenti che manifestano pacificamente e vengono fucilati della guardia nazionale, all'esecuzione misteriosa dei due Kennedy, di Martin Luther King, di Malcolm X e perfino, proprio nella sua città, di Fred Hampton, freddato dalla polizia perché nascondeva, per conto del Black Panther Party, "sicuramente" armi di distruzione di massa....
una pagina del libro famigerato 
Sarcasmo a parte, Siskel non ha approfondito molto bene quel decennio di aggressioni a freddo dentro e fuori il paese, o fa finta di dimenticarsene, a giudicare dalla prima parte, quella dell'inquadramento storico, troppo sommaria e superficiale, del suo documentario, presentato a Venezia fuori concorso American Anarchist, sorta di processo, un po' da inquisizione un po' da maccartista, a un ex militante bianco radicale, William Powell, allora diciannovenne, figlio di un diplomatico dell'Onu, autore di un libro che ha venduto (parola che dovrebbe essere già di per se' sacra per ogni cittadino nordamericano) oltre 2 milioni di copie.
Un anno dopo la nascita di Siskel, infatti, quando il presidente repubblicano Richard Nixon sta per dichiare una guerra segreta alla Cambogia, senza autorizzazione del Congresso e del Senato, bombardandola per 5 anni di seguito e tutta, tranne la capitale Phnon Penh, uccidendo centinia di migliaia di civili tra l'indifferenza dell'occidente e mandando ai pazzi i khmer rossi, poi troppo vendicativi, nel 1970, Wiliam Powell pubblica un libro-manifesto che incita gli americani a ribellarsi al proprio governo, e dà il suo piccolo contributo alla lotta di popolo. The Anarchist Cookbook è un volume interno al Movimento e che polemizza contro i pacifisti del Movimento, spiega che la rivoluzione, come dice il presidente Mao, "non è un pranzo di gala" ma è introdotto da una celebre fase di Lincoln, che incita gli americani alla rivolta anche armata contro il proprio governo, nel caso si dimostrasse indegno della propria  Costituzione. Un pamphlet che oggi può farci sorridere per alcune frasi roboanti, retoriche e avventuriste, tipiche di quel momento (il mondo che reagiva agli anni di piombo, finalmente) ma che è accurato e ricco di illustrazioni e "ricette" su come fabbricarsi in casa le armi di autodifesa. E che, in quasi tutto il mondo, sarebbe stato censurato, proibito e perseguitato. Ma non negli Stati Uniti, fieri di un emendamento alla Costituzione che garantisce il possesso domestico e l'uso (se necessario) delle armi, anche da guerra, a ogni cittadino. Il paradosso dei militanti del Black Panthers Party che sfoggiavano legalmente in California i propri fucili per le strade, si spiega proprio in base a questo alto principio costituzionale. Il volume ebbe normale distribuzione nelle librerie (mentre venivano sequestrati a iosa giornali sovversivi, opuscoli marxisti-leninisti e fumetti underground profondamente antipuritani) ed è tuttora in commercio, e non solo su internet. Powell insegnava come trasformare i fucili in bazooka, come mettere alle pistole il silenziatore, come fare molotov efficienti e bombe carta, o a basso e alto potenziale. un capitolo era dedicato anche all'lsd e a come sintetizzarlo comodamente sulla propria poltrona. Forse bastava che Siskel quantificasse il numero degli attentati compiuti tra il 1969 e il 1975 in tutto il mondo occidentale, in Usa, Gran Bretagna, Germania, Italia, Francia, Australia, Nuova Zelanda, Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia... contro le basi militari americane e le ambasciate. E si sarebbe capito tutto. Fu il contributo del mondo civile (e senza morti, al primo morto, il proprio, i Weathermen si sciolsero) agli orrori dell'aggressione nel sud est asiatico. L'unica vittoria del movimento sessantottino planetario. Poi infarcito di servizi segreti... Se quel libro si toglie da quel contesto lo si può incolpare di qualunque misfatto. Invece il successo immediato del volume derivava proprio dal contesto politico del momento. Non è paradossale dunque che The Anarchist Cookbook subì un solo processo, vinto dall'autore e dall'editore, nel 1974, ma non per istigazione alla lotta armata, ma per aride questioni di copyright. Il libro, che Powell aveva completato in biblioteca, studiando la stampa ufficiale dell'esercito Usa, veniva processato per plagio, dall'autore di un opuscolo simile (che aspirava a un pezzetto di torta). Già. In quegli anni ovunque nel mondo veniva pubblicato il celebre manuale della guerriglia di Che Guevara. E perfino in Italia, direttore responsabile Lucio Colletti, un numero della rivista "La Sinistra" andò a ruba perché spiegava come costruirsi le molotov e come lanciarle nel modo più efficace contro i celerini. Peccato che Colletti, poi passato a Berlusconi, non sia vivo. Una chiacchierata con Siskel sarebbe stata piuttosto divertente, oggi.