giovedì 28 aprile 2016

Gus Van Sant. Bello e dannato

Prove di risarcimento dalla Francia per Gus Van Sant, massacrato l'anno scorso a Cannes con il suo The Sea of Trees che finalmente esce nelle sale italiane (e francesi) con il titolo La foresta dei sogni. Il coro dei “buu” dei festivalieri contro un film splendidamente imperfetto, dalla sceneggiatura schizofrenica, eppure incantevole, si è trasformato in “un'occasione (quasi) perduta” sulle pagine di Le Monde il quale nota la crudeltà con cui è stato accolto il film “abbondantemente fischiato durante la proiezione, il film è stato poi travolto dalla critica con una tenacia e una furia di rara potenza criminale”. Il quotidiano francese non salva The Sea of Trees, “un anno dopo, ci piacerebbe catalogarlo tra il mal giudicati – scrive – ma nessun miracolo... anche se, secondo noi, il film non è privo di qualità. L'errore principale, nei nostri ricordi, è quello di indicare nella prima parte il bellissimo film che avrebbe potuto essere”. E' già qualcosa. Un fotogramma di The Sea of Trees vale più o meno l'intero cartellone di Cannes 2015.
Intanto la Cinémathèque française dedica al cineasta “proteiforme” un'ampia mostra/retrospettiva “Gus Vant Sant- Icone” (13 aprile-31 giugno) dove, oltre ai film, si vedranno le sue fotografie, i lavori sperimentali, le serie tv (la politica Boss), oggetti, set, disegni, fantasmi (River Phoenix, Kurt Cobain...) e feticci vari.



Mariuccia Ciotta
Cannes 2015

Cielo nero per Gus Van Sant, accolto da un'ondata di “buu” che ha sommerso i flebili battimani al termine di The Sea of Trees. Indipendente, autore totale, il cineasta americano è sempre urticante nella sua ricognizione sui teenager, dall'esordio Malanoche passando per My Own Private Idaho, Elephant (Palma d'oro), Last Days, Paranoid Park fino a Restless (2011) che diffonde odore di morte in The Sea of Trees, uno dei pochi film “adulti” di Van Sant, insieme a Milk e a Promised Land. Là due adolescenti, appassionati di funerali, di fronte al confine tra esserci e non esserci più, la vita come una malattia da curare con ogni mezzo necessario, qui due uomini persi nel limbo di Aokigahara, ai piedi del monte Fujii.

  Il film prosciuga la narrazione e stringe l'inquadratura sulla questione che sta più a cuore al regista, l'esistenza impalpabile e sfuggente che neppure il professore di fisica Arthur Brennan (Matthew McConaughey) riesce a decifrare nella sua lavagna di algoritmi, qualcosa che chiede al cinema di scovare, dare forma, rendere visibile. Qualcosa di condiviso tra Mia Madre e The Sea of Trees, tutti e due indagatori della zona tra aldiqua e aldilà, esaltanti antidoti del lutto.

Un uomo solo, corpo in campo radiografato in primissimi piani a coglierne il passaggio emotivo, tanto che la storia (scritta da Chris Sparling) resta sfocata, espediente per arrivare nel “luogo ideale dove morire”, il mare di alberi di Aokigahara, vista in “cartolina” dall'alto perché il Giappone ha negato il set del “suicidio perfetto” ( e Van Sant se n'è andato in Massachusetts).

Arthur Brennan ha consultato Internet e deciso di partire per Tokyo con un flacone di sonniferi, sua moglie Joan (Naomi Watts) è morta, ma non per questo vuole andarsene dal mondo. Solo che ha sprecato un'immensa occasione, come il fantasma kamikaze di Restless che dimenticò di consegnare una lettera d'amore. E perso il tempo di vivere, dilapidato i giorni nella banalità di gesti e parole, come un film che fa spettacolo e (non) accumula fotogrammi incerti. Sarà la foresta a battere il tempo e a dare senso alla storia di Arthur Brennan.

Cadaveri semi-mummificati, scheletri, corpi appesi nel buio, il bosco roccioso è una tomba aperta, ma nella griglia di alberi e cespugli si muove uno spettro, Takumi Nakamura (Ken Watanabe) aspirante suicida pentito, che fermerà Arthur alla seconda pillola. L'uomo sanguinante chiede aiuto, e coinvolge l'altro in una corsa per la sopravvivenza. Segnali magici spuntano nella foresta, un'orchidea a testimoniare la perdita di una vita, una canzone, un rebus di parole, e i discorsi avvinghiati ai due uomini, lo scienziato scettico e il samurai mistico... In comune la favola di Hans e Gretel e il sentiero verso la salvezza.

Niente new age, la spiritualità laica di Gus Van Sant si sprigiona nell'abbraccio amoroso tra il giapponese che viola la tradizione del disonorato (ha perso il lavoro) e l'americano restio a credere a ciò che non vede. Feriti, ghiacciati dal gelo della foresta, i due sembrano su un terreno di guerra, mormoranti confidenze e segreti. In flashback le fasi del conflitto tra Arthur e Joan, il risentimento perché lui l'ha tradita, incapace di dirle l'amore. E poi la tragedia che non lascia margini di ripensamenti. 
 
The Sea of Trees, quarto titolo di Gus Van Sant in gara a Cannes, va alla ricerca della via d'uscita dal labirinto mortifero, una mappa incisa sulla carne di Arthur Brennan (performance impareggiabile di McConaughey) che non sa qual era la stagione e il colore preferiti dell'amata, “non la conoscevo”, rivelati post-mortem dagli ideogrammi dello spettro (non c'è traccia di lui, Takumi Nakamura non è mai entrato ad Aokigahara) che tradotti suoneranno così: “inverno” e “giallo”. 

Emotivamente insostenibile, evidentemente, per i festivalieri. Lo sono le favole.

Ps: In realtà, flash-back incrociati e coup de théatre finale e fantasmagorico sono risultati indigeribili. Dettagli.





sabato 23 aprile 2016

Rom Capoccia. I gemelli De Serio dentro il campo Platz, sul lungo Stura Lazio, Torino




DOPO LA PROIEZIONE DI ROMA ALL'APOLLO 11

FINO AL 27 APRILE AL CINEMA MASSIMO DI TORINO

IL 26 E 27 APRILE AL CINEMA PALESTRINA DI MILANO

POI IN GIRO NEL CIRCUITO NOBILE DELLE SALE ANTAGONISTE

PER METTERVI IN CONTATTO CON GLI AUTORI 

E PROIETTARE IL FILM NELLE VOSTRE CITTA'

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I gemelli De Serio


roberto silvestri




I fratelli e gemelli De Serio, documentaristi e antesignani del cinema del reale, quel movimento di rianimazione e ossigenazione delle immagini che ha perfino influenzato Quo vado di Checco Zalone, questa volta se la prendono con un bel blocco di luoghi comuni e li fanno letteralmente a pezzi.  Ovvero. Gli zingari rubano. Non lavorano. Sono infidi, alieni, sporchi, vivono in condizioni igieniche disastrose. Sono un pericolo per i nostri figli… Portano i cavalli in città e poi li sfruttano nei circhi...
Lo sgombero progressivo (e perfino pregressista) del Platz, il cosiddetto campo nomadi più grande d’Europa, effettuato dal comune di Torino tra il 2012 e il 2105, è stato aizzato (con la copertura etica di scandalose condizioni di vita) dai pregiudizi di cui sopra e raccontato dai mass media in questi anni in toni per lo più sensazionalistici, pietistici, giustizialisti o scandalistici. Cosa che deve aver fatto indignare furiosamente i nostri due cineasti che si sono così "nascosti" nella baraccopoli per molti mesi e sono diventati parte della lotta per l'assegnazione di case decenti o per una soluzione razionale del problema. 
Cosa ricordiamo infatti di normale nel contatto umano e nella comunicazione conoscitiva dei rom, in un oceano di immagini colpevoliste?  Le foto di Tano D'Amico, le canzoni di D'André, Fossati e Moni Ovadia, una vidigrafata di Paola Pannicelli e Alberto Grifi, alcuni documentari "di profondità", come la collezione A forza di essere vento (2 dvd contenente opere di Giovanna Boursier, Marcello Pezzetti, Paolo Poce e Francesco Scarpelli sull'olocausto nazista e sulla situazione di vita in Italia),  o L'udienza di Luciana Fina, sull'incontro tra papa Woytila e i rom d'Europa in occasione della beatificazione del primo santo gitano-lusitano Ceferino Gimenez Malla (mai andato in Rai, neanche in prima serata, eppure non stiamo parlando di Bergoglio). Tutti i film di Tony Gatlif, il prediletto di Guy Debord, un Soldini, un Robert Duvall, un Mike Newell, qualche opera di Tonino Zangardi, il "frammento elettrico" di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi alle prese con footage dell'immediato secondo dopoguerra che mostravano ai bordi di un ramo del lago di Como una piccola unità plurifamiliare di zingari, sopravvissuti alla caccia grossa nazista. L'Oreste a Torbellamonica di Carolos Zonars (1993), che aveva il merito di allestire una tragedia greca con gli intoccabili tra gli zingari. In Japigia Gagj di Giovanni Princigalli (cineasta italiano che vive e lavora a Montreal e dal 2003 ha un contatto continuo con la comunità barese) Daniela, detta Aida, realizza il suo sogno. E diventa, a 24 anni, top model, come una seconda Moira Orfei al massimo della forma. 

Quando si tratta di sinti e rom, e non solo a Torino, il metodo è cancellare tutto questo questo (per esempio espellerli dalla prima serata tv). Anche se vanno a scuola, lavorano, partecipano ai riti religiosi con il più sacro trasporto e qualcuno è anche cineasta, come Laura Halilovic, si continua a ritenere sacrosanto che un ragazzo nato in Italia e di etnia zingara quando raggiunge la maggiore età, i 18 anni, venga cacciato dal paese con il foglio di via. Altro che lotta al razzismo, transculturalità, meglio cancellare tutto sotto tonnellate di emozioni tossiche. Come si faceva con i baraccati meridionali del Mandrione e del Quadraro, tollerati nelle baracche romane per venti anni prima che arrivasse il primo  sindaco comunista della città eterna, Petroselli, ad assegnarli case decenti. Altro che "perennemente nomadi". E non tutto è oro quel che riluce nell' "Opera nomadi".
Si indica con il dito del giudice e si trasformano, per lo più, le immagini in parole d'ordine, invece di affidarsi allo sguardo libero del cittadino. Si produce un pubblico unanime, compiaciuto della propria indignazione cioè degradazione mentale, invece di spettatori critici e spregiudicati. E, come ci ha insegnato Mafia Capitale, attorno a queste emozioni bel pilotate si fanno maneggi, affari e crimini assai più redditizi di qualche furto con destrezza…
I gemelli Massimiliano e Gianluca De Serio, figli di immigrati a Fiatland, conoscono bene il meccanismo subito da migliaia di meridionali che da 70 anni fanno la ricchezza di Torino e lo combattono dal 1999 con le armi del cinema, una trentina di opere tra corti, video, documentari e installazioni. Nel 2012 hanno fondato, nelle periferie, il Piccolo Cinema, "società di mutuo soccorso cinematografico" dopo aver vinto il premio Don Chiscitte al festival di Locarno con il loro primo lungometraggio a soggetto, Sette opere di misericordia.  Nel 2011 hanno vinto il festival di Torino con Bakroman, una giornata con i ragazzi di strada di Ouagadougou. In questo bellissimo documentario, I ricordi del fiume, leggermente accorciato rispetto alla versione vista alla Mostra di Venezia (è diventato anche una piece teatrale), entrano nelle baracche, nella vita, nei sogni, nelle danze, nelle macerie, nei ricordi e nei giochi degli “ultimi tra gli ultimi”. Per un anno e mezzo i due cineasti sono stati complici e amici di una trentina di rumeni di etnia rom, bambini che vanno a scuola, mamme combattive, nonne argute, ragazze indocili alla tradizione, chi fa l’elemosina nei posti più poveri perché da quelli più ricchi li cacciano, chi torna in Romania per un po', chi si lamenta per l'ingiustizia delle case popolari assegnate con criteri niente affatto trasparenti, chi trova le nuove case assegnate - anche se provvisorie - bellissime, ma mancano i termosifoni e bisognerà portarsi le stufe dalle vecchie baracche, chi aspetta il ritorno del marito dal carcere, chi ammonisce i ragazzini a non rubare perché tanto non conviene… Amici e confidenti tra gli oltre 2000 che in 15 anni hanno fabbricato una baraccopoli di resistenza e mutuo soccorso sul Lungo Stura Lazio, oggi panorama di macerie di legnio e alluminio ancora non ripulito. E chi vinse l’appalto per assegnare agli sfollati case poco abitabili o rimandare indietro rumeni non in regola è indagato in queste settimane dalla magistratura. Mafia Capitale anche a Torino, che capitale fu, anzi insegnò a Firenze e Roma come approfittarne al meglio.        

mercoledì 20 aprile 2016

Fukushima, una storia nucleare.














Roberto Silvestri 

Si intitolava Fukushame, la vergogna di Fukushima, la prima inchiesta, a caldo, sul disastro nucleare del 2011 che ha colpito la costa nord est del Giappone, realizzata da Alessandro Tesei, cosceneggiata e montata da Matteo Gagliardi e contenente l'intervista, realizzata per SkyTg24, all'ex premier Naoto Kan di Pio d’Emilia, uno dei pochi giornalisti (tra stranieri e giapponesi) che si era recato immediatamente sul posto della tragedia a verificare l'entità dei danni, il funzionamento dei soccorsi, le responsabilità della società Tecpo (Tokyo Electric Power Company) nell'incidente e la veridicità di ciò che raccontavano i mass media. 
Esattamente 5 anni fa. 
Ma l’incubo continua, anche oggi, nel quinto anniversario di quel triplice orrore: terremoto (da nono grado), tsunami ed esplosione nucleare apocalittica, evitata per miracolo, anzi grazie all'eroismo del direttore degli impianti che pagò con la vita la sua decisione di raffreddare immediatamente i reattori con acqua marina, non eseguendo gli ordini della società di gestione ed esponendosi personalmente alle radiazioni mortali (oltre che alle critiche degli specialisti di tutto il mondo, al sicuro sulle poltrone dei talk show tv). 
Oggi i quattro reattori squarciati non sono ancora sotto controllo. Il nocciolo di uranio del reattore 2 continua a fondersi, sotto gli occhi preoccupati di Naohiro Masuda, l'attuale responsabile dello smantellamento (da completare non prima di 40 anni) del Fukushima Daiichi, minacciando di contaminare per secoli l'oceano, con radiazioni esiziali senza precedenti. Per un raggio di 30 chilometri è deserto e morte. 100 mila persone, delle 160 mila evacuate, vive ancora lontano, nei prefabbricati. Sono comparsi perfino gli sciacalli, a saccheggiare le case abbandonate, una novità per i costumi nipponici. Gli animali, completamente abbandonati, muoiono di fame, divorandosi l'un l'altro... Sono alti i livelli di radiazione nel raggio di 300 km, perfino nelle strade di Tokyo. Gli effetti della nube radioattiva e delle acque contaminate restano un minaccioso incubo. Due centrali atomiche su 52 sono in funzione in questo momento. Ma.  
Il premier conservatore e nazionalista Shinzo Abe minimizza da Tokyo e tranquillizza industriali, opinione pubblica e i turisti "niente danni irreversibili, nessun rischio", anzi rilancia con enfasi l'opzione nucleare, indispensabile per un Giappone all'altezza della competizione internazionale e smaniosa di autonomia energetica. Non solo. Forte dell'esperienza acquisita dal Giappone in disastri atomici senza precedenti, ha intenzione di esportare questo know how nel mondo. "Le nostre centrali sono le migliori, la sanno più lunga delle altre".  Oltretutto la Tecpo è campione mondiale nel non risarcire mai i parenti delle vittime. 
Ma il suo predecessore, il progressista Naoto Kan, non è d'accordo. Sulla onda lunga di manifestazioni di piazza e di un imprevisto, possente movimento ecologista, chiede l'immediata chiusura di tutte le centrali atomiche: "Il Giappone deve bandire il nucleare, che ha già drammaticamente subito nel 1945, e che non è né economico né sicuro. Oltretutto si può essere più che autosufficienti anche solo grazie all'energia pulita, eolica e solare". 
Naoto Kan, ex leader del Partito Democratico, è diventato ecologista solo dopo la tragedia. E ha lasciato ogni incarico politico diretto. Capo di un governo di centro-sinistra che ha interrotto per un lampo il ferreo controllo del paese da parte del Partito Liberale manovrato da Washington, è venuto a Roma, il 7 marzo scorso, per presentare alla stampa, al Maxxi, il bellissimo documentario,  Fukushima – A nuclear Story  docu-film diretto e cosceneggiato da Matteo Gagliardi e basato anche sul libro di Pio d’Emilia Tsunami Nucleari (della Manifestolibri, 2011) e sui reportages che il decano dei corrispondenti da Tokyo ha continuato a inviare regolarmente prima di occuparsi, sempre per Sky, con lo stesso coraggio e sfrontatezza, dell’attuale emergenza profughi dalla Siria.  L'11 marzo scorso, quinto anniversario della catastrofe, il film è andato in onda, su SkyTg24 e su Sky Cult ed è stato poi replicato e trasmesso dalle televisioni di numerosi altri paesi. 
Pio d'Emilia, firma storica del manifesto, che, come una sorta di Michael Moore, sempre pronto ad accentuare con punte comiche l'orrore del presente, racconta in campo e in prima persona maschile singolare, questo dramma ormai rimosso, utilizzando "tutti gli stili documentaristici necessari", compresi quelli illegali, da vero cannibale del reale, e, dopo aver ricordato che nessuno è stato inquisito né condannato per questi 19 mila morti, "uccisi da calamità naturali" secondo la commissione di inchiesta, conferma le parole di Kan: "L'emergenza nucleare, a Fukushima, è ancora in atto. Checchè ne dicano Abe ed il suo governo, che continuano a omettere, manipolare e mentire al loro popolo e dunque al mondo intero. Purtroppo, nonostante gli articoli ed i reportage che escono in questi giorni, quello che è in atto è il solito processo di amnesia strategica più o meno indotta - e per la quale la responsabilità dei media è altissima - che ha colpito tutti gli incidenti nucleari, da quelli meno noti, ma gravissimi, di Bikini (1954), Mayak/Kyshtym(1957), Santa Susana (1959) fino ai più recenti di Three Mile Island e Chernobyl".
Prodotto da Teatro Primo Studio/Film Beyond di Christine Maria Reinhold, anche cosceneggiatrice assieme a Pio d'Emilia, il film è anche un omaggio obliquo al Giappone e alla sua cultura millenaria, devastata e incrinata persantemente solo dall'estremismo, conscio e inconscio, del neoliberalismo e della biopolitica. D'Emilia spazia nel tempo, e nello spazio (arriva fino in Finlandia, dove in una mega galleria sono sepolte le scorie radioattive) alla ricerca della soluzione di un enigma. Come è stato possibile, dopo Hiroshima e Nagasaki, scodellare il nucleare in Giappone. Semplice. Una campagna battente, imposta dagli interessi economici americani, attraverso il riciclaggio in miliardario di un ex criminale di guerra, dotato di tv privata e giornali super protetti dalla pubblicità. Ci ricorda qualcosa.  
I personaggi che via via Pio d'Emilia incontra nel film, come l'ex olimpico di cannottaggio a Roma Chiba, conosciuto nell'inferno di Kesenuma; la famiglia Sasaki di Miyako, salva per miracolo; il "bonzo" Ishigamori di Yamada, che ci permise di assistere alle prime, tristi cremazioni; Matsumoto, un passato da yakuza, uomo dal grande cuore che permette alla troupe di evitare i blocchi della polizia e entrare dove è proibito; Asami, una coraggiosa giornalista giapponese; Mikiko Kobayashi e la famiglia Yoshida di Koriyama, che aiuta la minitroupe; Okuni, un baleniere di Ayukawa; l'irriducibile Yoshizawa, rimasto nella zona proibita per "difendere" le sue mucche; Naoko, che a Naraha, zoina evacuata, è rimasta ad assistere la vecchia madre malata, nel frattempo scomparsa serenamente nel "suo" letto, senza affrontare la drammatica evacuazione. Nella versione in lingua inglese la voce fuori campo è quella di Willem Dafoe.



mercoledì 6 aprile 2016

Sette lezioni di civiltà e di sport. Che cos'è un Manrico di Antonio Morabito

Manrico Zedda e Stefano Romani in "Che cos'è un Manrico"


Che cos’è un Manrico

Gli artisti vedono cose che gli altri non notano e le rifabbricano, da oculisti provetti dell’immaginazione, in modo che tutti se ne possano accorgere. Per questo a volte bisogna provocare lo spettatore. Fargli anche “male”, se necessario. Chi va a vedere una storia anche dura, come Il figlio di Saul, deve interessarsene, appassionarse, anche se assiste, raddoppiando il piacere schermico, al rovesciamento di fronte: è anche la storia che vede te. E ti inquieta. Ti sposta in uno spazio, importante ma pericoloso… E’ solo questa la politica degli autori che ci interessa. Non estetizzare la politica ma politicizzare gli autori. Col metodo cool di Malle o hard bop di Godard.
Un esempio è questo piccolo grande lavoro di geografia emozionale complice, radicale e appassionata, che esce oggi quasi miracolosamente nelle sale (è stato realizzato nel 2012) grazie al ripescaggio miracoloso dell’Istituto Luce che ha incrociato, come Saul sulla via di Damasco, qualcosa di misterioso che lo ha convinto a deviar strada. 
E’ Che cos’è un Manrico, un film girato qualche anno fa assieme a un signore affetto da distrofia muscolare (al suo badante, alla sua nonna, ai suoi amici, alla sua città), la malattia contro cui si è battuto tutta la vita Jerry Lewis, affranto dalla sua incurabilità (ma Telethon è nata per smentirci) e nello stesso tempo ipnotizzato dai corpi diversamente abili che costringono quelli "normali" a interrogarsi sui propri dispositivi fisici e intellettivi e sulle loro funzionalità. Un doc in forma di commedia, duetti spesso esilaranti tra badante e malato, soprattutto, ma anche tra Manrico e la nonna, qualcosa che ci ricorda i battibecci tra R2D2 e BB-8 di Guerre stellari, Totò e Peppino o tra clown bianco e clown Augusto.
Peccato non averlo visto a suo tempo.  Avremmo capito in anticipo, se non altro dalle difficoltà di movimento della carrozzella a motori di Manrico per Prati o per Monti, qualcosa di profondo sul malessere di Roma, che i tg non ci raccontano, perché le mafie peggiori sono quelle così radicate nella mente e che pensi non esistano o ti ci abitui. Uno sa, per esempio, che i centri di accoglienza profughi sono necessari. E si fida che magistrati affidabili ne permettano la gestione anche ad avanzi di galera che hanno pagato con il carcere i loro crimini, garantendo per loro. Poi scopri che invece Buzzi e Mafia Capitale e Alemanno e perfino ambienti vicini a Veltroni….
L’handicap, invece, può acuire la vista se ci si sbarazza da alcuni filtri (la paura o il pietismo o il paternalismo) che ne ostruiscono la visibilità. Ecco il diversamente abile cos'è. Quella capacità di mettere in movimento tutte le teste circostanti.


Nei sette giorni d’estate passati dal regista in giro con Manrico Zedda, trentenne distrofico di Roma, ex campione di hockey su sedia a rotelle l’azione, lo spettacolo, il thrilling è la quotidianità. La normalità di una persona diversa ma uguale. Si incrociano, come succede a tutti, i musicisti di strada, si entra nei bar, si chiacchiera con chi lavora nei ristoranti cinesi, si filosofeggia in piazza di San Pietro (prima che la blindassero) si sale fin sui terrazzi di casa, ci si fa la doccia (a fatica) e si va a vedere una partita…
Una carrozzella, anche se a motore, nel centro della Capitale, ha non pochi problemi di movimento, perfino in piazza Adriana. Fare slalom tra le macchine e arrampicarsi sui marciapiedi ostruiti è infatti proprio quello che succede, nella metropoli proprio a tutti noi ma, ad agosto, tra Borgo Pio e Campo de’Fiori, soprattutto ai Manrico. Ai più ultimi di tutti. E’ per loro che si vota, non per noi. Chi risolverà il doppio problema di Roma (paralisi delle attività e mafia, proprio quello di Palermo nella lettura di Benigni in Johnny Stecchino) vincerà le elezioni più disertate del secolo. Lo può fare solo la politica. Non l’indignazione frivola.
Torniamo al film. Orfano di padre e madre, Manrico vive con la nonna in una casa del centro storico di cui non possiede le chiavi anche se ha 33 anni. E lei è troppo anziana, anche se ha una vitalità da uragano,  per occuparsene. Ma è gelosa di chi se ne occupa. Dunque Manrico dipende totalmente dal volontariato. E con Stefano Romani, il suo operatore sociale di rara sensibilità ha un rapporto bellissimo, scherzoso, fisico, psichico, materiale e immateriale, nonostante Manrico, un tipetto non facile, sia tremendamente stonato quando canta e muova (debolmente) ormai solo la testa e i pollici che lo collegano con tutto il mondo via social network. Intanto i finanziamenti pubblici agli operatori sociali, forse perché considerati un grande spreco di spesa pubblica come gli insegnanti di sostegno nelle scuole, non aumentano, anzi rischiano di essere tagliati. Perché, come diceva Pasolini, si confonde sviluppo con progresso. E vanno di moda i Pil che tutto misurano tranne la dignità della vita. Stefano farà molti straorinari non pagati....  
Il cineasta carrarese che viene dal corto e dal documentario impegnato Antonio Morabito era un amico di Manrico anche prima di girare il film, come si intuisce. La complicità culturale e il livello di intimità nei dialoghi "messi in scena" lo proveranno. Non c’è argomento, sesso, dio, politica, etica, estetica, critica del presente, che sfugga alla sapienza da "romanaccio verace" di questo ragazzo chiamato Robocob per scherno affettuoso dai compagni di quinta elementare. Roma ha un grado di calore umano che sfugge agli stranieri. E' la genialità della sua volgarità e schietta ferocia, mai però ipocrita. Nel documentarismo moderno, dall’epoca di La memoria fertile in poi (un film del palestinese Michael Khleifi che ha cambiato le regole del gioco) non si insegna nulla e non si convince il pubblico di nulla (contro chi, attraverso una voce fuori campo ispirata da forti potentati o comitati centrali di partito, imbavagliava le immagini). Si deve conquistare prima di tutto la fiducia e abbattere le diffidenze dello spettatore che ha paura di essere truffato dalla messa in scena (c’è sempre nel doc), ingannato dagli slogan (le generiche accuse al sistema tanto di moda oggi, e sempre ininfluenti, anche in Parlamento), suggestionato dalle immagini. Per combattere la sensazione di sentirsi un burattino privo di strumenti di difesa, il cineasta deve garantire allo spettatore che prenderà la parola per trasmettere un’esperienza di verità, magari piccolissima, in cui è coinvolto personalmente, che conosce bene. Non parlare mai per interposta persona. Ma sempre in prima persona singolare ribelle, in questo caso maschile.   E’ il metodo Gianfranco Rosi. Il procedimento Pietro Marcello. Il sistema Michelangelo Frammartino. Insomma la sensibilità più che la poetica che unisce il migliore cinema italiano esportabile del momento.
Direte: e l’umorismo? In fondo è stato grazie a Michael Moore che questo genere negletto al box office è diventato di nuovo fiorente. Ma anche su questo terreno Morabito ci stupisce, visto i film precedenti, e soprattutto Non son l’un per cento (2007), oratorio severo sul movimento anarchico italiano, suoi splendori e problemi, che un carrarese come lui ovviamente ben maneggia geneticamente e sul quale (Pinelli docet) c’è ben poco da ridere. Morabito ha esordito nel 2003 nel lungometraggio di finzione con Cecilia (che era il prolungamento di un corto) distribuito dalla Pablo di Arcopinto, e nel 2013 ha diretto Il venditore di medicine, con Claudio Santamaria, che sta facendo il giro del mondo dei festival, e che contiene nel sottotesto non pochi tocchi di umorismo macabro. Qui la novità non è l’umorismo del regista, ma il sarcasmo, ironia, il pensar provocatorio, arrabbiato, arrapato, sorridente e ridanciano del suo personaggio e amico. Manrico guida le danze. Da ex sportivo conosce tutte le regole e sa che senza conoscerle e senza scavalcarle non si segna.

Il pensiero deve andare sempre al di là di se stesso. Delle sue possibilità e dei suoi limiti. Ci insegna a muoverci meglio e di più. Se non con le gambe. Con la testa. La creatività. Direbbe Emilio Garroni che questo film ci insegna qualcosa della creatività. Per questo anche se Manrico non c'è più oggi è lui che presenta il "nuovo film di Antonio Morabito".




sabato 2 aprile 2016

L'asfalto che ride. Ovvero "Il condominio dei cuori infranti" di Samuel Benchetrit


Mariuccia Ciotta

In sala anche in Italia uno dei più amorevoli e comici poemi sulle babele periferiche, in tempi di “mostri della porta accanto”,  Asphalte del francese Samuel Benchetrit, scrittore, attore, pittore, regista, padre ebreo marocchino. 
Proveniente dal “Certain regard” di Cannes 2015, il titolo italiano, Il condominio dei cuori infranti, rimanda ai testi autobiografici dell'autore, Les Chroniques de l'asphalte, e sfoggia un bel cast, Isabelle Huppert, Valeria Bruni Tedeschi e l'americano Michael Pitt (Dreamers di Bertolucci). 
Pennellate stralunate, quadretti di vita in una banlieue parigina... palazzone scrostato, immigrati, qualche strafatto, e molti fiori (umani) che spuntano nelle crepe del condominio. Esilarante nelle scenette che si susseguono, surreali e commuoventi.
L'uomo corpulento, capelli arruffati, che non vuol pagare l'ascensore nuovo, tanto abita al primo piano, e finirà in carrozzella per stress da cyclette (svenuto, arriva a 100 km), costretto a uscire solo di notte (gli è vietato usare l'ascensore) e a procurarsi sacchetti di patatine fritte all'ospedale, dove incontra l'infermiera Valeria Bruni Tedeschi, per cui si inventerà un'altra vita.
L'adolescente angelico (Jules Benchetrit) e solo che consola l'ex diva sul viale del tramonto (Huppert) finita nel caseggiato periferico. E la signora araba che si vedrà piombare dal cielo l'astronauta John Mc Kenzie (Pitt), precipitato con la sua navetta sul tetto dell'edifico, una specie di Buzz Lightyear con tuta bianca, casco e respiratore. “Una donna araba? Sei stato sequestrato?” gli chiedono apprensivi dalla Nasa. 
Ma John Mc Kenzie, che ha avuto in prestito una maglietta dell'Inter (del figlio in carcere) dall'accogliente signora neanche tanto sorpresa dall'uomo venuto dal cielo se la passerà bene a piatti di couscous nel più bell'incontro tra alieni che si sia mai visto.