venerdì 27 novembre 2015

Daniele Luchetti presenta il suo film inchiesta su Jorge Bergoglio. Ma si tace sulla Guardia di ferro




La croce di ferro del Papa 

comunque si dice bergoghlio, all'argentina...


a sinistra la croce d'oro di papa Ratzinger, e a destra quella di ferro di Francesco  

roberto silvestri 


Agiografia, non agiografia? Santino? Non santino? Ieri è uscito il nuovo attesissimo film di Daniele Luchetti Chiamatemi Francesco. Lasciando non poche perplessità rispetto al progetto di Luchetti di realizzare un film-inchiesta.
E’ proprio la biografia (“veritiera” dicono però in Vaticano) sul gesuita peronista tifoso del San Lorenzo ed ex militante della Guardia di ferro che appena eletto sorprenderà tutti rifiutando la croce dorata e preziosa (preferendole non a caso una croce di vil ferro) e conquisterà i fedeli, collegando il poverello d’Assisi a Mike Bongiorno: “fratelli e sorelle, buonasera!”.
Il primo film su un Papa vivente e ridente come il Dalai Lama (Razzi era morto, L’uomo venuto dal Kremlino e Habemus Papam erano solo film profetici, per non ricordare i documentari su papa Givanni XXIII) è stato “fortemente voluto”, come ha sottolineato Piero Valsecchi, il produttore, da Silvio Berlusconi.
Il regista Daniele Luchetti 
Eppure sono ripetute e continuate le intemperanze anti papiste dei suoi organi di stampa, il Giornale del Foglio e di Libero e dei corrispettivi mezzi di comunicazione di massa televisivi (i tg di Canale 5 Italia1 e Retequattro) che fiancheggiano il terrorismo mediatico dell’estrema destra vaticana e extravaticana, contro la mina vagante dello “scandaloso Jorge” che urla contro il neoliberismo e la disoccupazione dilagante, il maltrattamento delle donne, e a favore dell’accoglienza dei profughi, contro la guerra che non è mai “di civiltà” e i lussi vergognosi dell’1% del mondo, nostalgica del pastore tedesco che li aveva condotti invece pimpanti alla guerra di civiltà contro le altre religioni (inferiori) e a quella contro i laici e i relativisti culturali che come si sa mancano completamente di Spirito. I cattolici insomma si devono rifare velocemente una identità. Anche perché, se no, scompariranno….

L'attore argentino Sergio Hernandez interpreta Papa Francesco dal 2005 al 2013

Un ambientino anti-Francesco composito, popolato da principi neri, vescovi di Ferrara (città e ex direttore del Foglio), teologi reazionari, probabili candidati sindaci di Milano, sentinelle in piedi, picchiatori, manifestanti anti Gender, sindaci eletti (!?) di Venezia e difensori di padre Lefevre e dei metodi di educazione approfondita collaudata nei secoli, altro che pedofilia! E perfino i ciellini più integralisti. Ma anche formato da certi gruppi femministi della differenza che trovavano più eco nelle encicliche filosoficamente dense di Benedetto XVI, e qualche stravagante libero pensatore di estrema sinistra, che giustamente diffida del populismo ed è sempre in difficoltà quando un soldato intelligente di Ignazio de Loyola spiazza tutti perché sembra occupare l’intero settore etico dello schieramento di sinistra…. 
Tutti gli altri, tranne questi ultimi, sono nostalgici di quando il compianto giornalista Mario Cervi poteva tranquillamente scrivere i suoi pezzi di appoggio razzista a Pretoria senza che la magistratura e l’ordine dei giornalisti intervenisse. E cercano disperatamente chi sia oggi il miglior allievo spirituale del nunzio apostolico presso Videla, Pio Laghi (quello che copriva la guerra sporca e affermava che i desaparecidos erano in realtà scomparsi ma presto torneranno) e di cui nel film, caritatevolmente, si tace. A volte i comunisti si combattono in un modo e a volte i comunisti si combattono in un altro.

Papa Francesco in una posa da Stan Laurel
A tutti costoro il film di Luchetti non piacerà. E troppo descamisado. Ma tanto non sono queste le persone che affollano i multiplex.
Ebbene, nonostante Papa Francesco sia ancora considerato dai suoi fidi alleati, Fratelli d’Italia e Forza Nuova soprattutto, “peggio di un comunista bastardo” (perché ormai non contano più nulla)il più celebre dei nostri pregiudicati e il meno infastidito dei nostri monopolisti ha intuito il grosso affare. E a proposito di Cl la "Guardia di ferro" è nato come gruppo di estrema sinistra peronista ma poi la sua evoluzione lo ha portato al centro, in polemica con le posizioni dei Montoneros e dell'eservito rivoluzionario trotskista argentino e infine nelle vicinanze di Comunione e Liberazione e della parte più cattolica di Solidarnosc. Nessuno dei suoi militanti è stato toccato dalla dittatura Videla. Da qui le note polemiche.

Un film e una serie tv di di 200 minuti su Bergoghlio (così si pronuncia in Argentina, e dovrebbe avere voce in capitolo) che smentisca le brutte voci su una presunta collusione durante la feroce dittatura militare tra lui e Videla, smantellando punto per punto le calunnie uscite a suo tempo sui due gesuiti abbandonati ai seviziatori, potrebbe essere uno strumento di propaganda fide redditizio.


I sondaggi parlano chiaro. Il Papa povero piace moltissimo. E' un sommo comunicatore. Così Berlusconi è stato felice di “sborsare di tasca sua” i 15 milioni di dollari del budget (in fondo medio basso, ma non per l’Italia). Si sarà identificato. Un lavoro lungo di riprese, 15 settimane. Una uscita italiana in 700 copie. L’arrivo in tv tra un anno e mezzo come vuole la legge. E la prevendita di un prodotto senza alcuna super star internazionale in ben 40 paesi.  Sono state impegnato le due grandi corazzate del suo impero cinematografico, la casa di distribuzione Medusa e la casa di produzione Taodue Film di Giorgio Grignaffini che ha tratto dalla sceneggiatura il romanzo della vita di Bergoglio (così si pronuncia nel film) a 17 euro, Mondadori edizione (ma potrebbe sembrare un libro Rizzoli).  Senza dimenticare che la versione lunga televisiva in 4 puntate di 50 minuti l’una non dovrebbe umiliare il buon lavoro di sintesi di Mirco e Francesco Garrone, i montatori, che sono riusciti a nascondere bene buchi e raccordi nella versione dimezzata per le sale, di 98’.
Inoltre non prendendo posizione sui due anni di pontificato che stanno sconvolgendo dal 2013 riti e miti della chiesa cattolica, oltre che l’attico di Bertone e l’intero gruppo dirigente d’epoca Ior, completamente fatto fuori da sua eminenza, ma limitandosi alla biografia precedente, soprattutto argentina, il film non potrà infastidire nessun credente, per quanto di destra sia. Ci sono in questo pontificato, anche azioni contraddittorie, comunque. Enzerberger non sarebbe troppo d'accordo sulla santificazione di preti e suore vittime della guerra civile spagnola perché nel suo libro su Durruti ci spiega che più che preti e suore costoro erano caudillos locali che tiranneggiavano da decenni i contadini sfruttandoli, trascinandoli alla fame e imprigionandoli. Già. Un caso di vendetta proletaria magari discutibilke, ma la santificazione sembra davvero esagerata. La riforma agraria. I socialisti nazionalisti sono famosi per prometterla sempre e non attuarla mai. Si analizzino le politiche di Peron e Nasser e i loro rapporti in sostanza privilegiati con i latifondisti. Dunque un po' di diffidenza per i peronisti e i giustizialisti di qualunque sponda è bene continuare ad averla. Anche qui, diffidare di chi ha il culto astratto della gente, dei sondaggi, di ciò che i "cittadini vogliono davvero" e di ciò che "ai cittadini interessa" e aizza alla galera chiunque solo perché dispone di macchine del fango efficienti, magistrati amici e mass-media... 

Ma. "Non c’è stato neanche bisogno di essere aiutati dal Vaticano. Perché tutta la storia vera, pubblica e politica, su Bergoglio  si può leggere tranquillamente su Wikipedia”. Luchetti insomma ci tiene a precisare che il suo “film inchiesta”, difficile da mettere in piedi perché non ne trovava un baricentro narrativo plausibile, poi scovato nel motivo psicologico della “preoccupazione”, vuole radiografare più la personalità intima e spirituale del futuro Papa che la cronaca della sua ascesa politico-pastorale che scandisce comunque: piccolo chimico peronista di sinistra che a vent’anni abbandona amore e lavoro e diventa sacerdote poi è promosso insegnante di letteratura nella Santa Fé di Birri (chissà se si sono conosciuti) e diventa amico del "radicale" antiperonista per eccellenza Borges (ma questa parte c’è solo nel film tv), poi è curiosamente appesantito di responsabilità come Padre Provinciale dei Gesuiti per l’Argentina, e continua a mantenere rapporti stretti con la sua organizzazione di origine, di ispirazione estremista rivoluzionaria ma che intanto si è spostata un po' al centro ed è diventata anti Montoneros (la Guardia di ferro, appunto), come si intuisce nella scena del consiglio d’amministrazione del mega-seminario in crisi economica, che lui raddrizza facendosi aiutare proprio da tre civili non ben indentificati nel film, ebbene sono propio loro, militanti della Guardia di ferro. E poi Bergoglio vede impotente assassinare amici, comunisti, rivoluzionari di altro tipo e gesuiti radicali senza poter far altro che “minimizzare al massimo le perdite”, costringendosi perfino a dir messa a Videla e famiglia pur di intercedere per i progionieri, aiutando alcuni profughi dal Cile a mettersi in salvo e organizzando un bel traffico di passaporti falsi etc… fino alla fine della dittatura, per proseguire in un molto piu’ umile il suo apostolato tra le baracche  delle periferie e delle favela, sopraffatte dal potere e dalla gentrificazione, anche in epoca Menem, fino al soglio pontificio che accetta con un grande sorriso. Nonna Rosa gli aveva insegnato a non andare mai d'accordo con i "santi tristi". 
 
Un libro dedicato alla Guardia di ferro argentina 

Mesi e mesi di sopralluoghi, per Luchetti, l’ascolto confidenziale di prelati, seminaristi, amici di infanzia e parenti, le testimonianze raccolte ovunque di tanti “nemici di Bergoglio” che gli rimproverano ancora comportamenti più che scorretti durante le persecuzioni neo-naziste, convincono il regista e sceneggiatore, giustamente, a scrivere un copione contro la lotta armata senza se e senza ma che non sembri però l’opera di un pio turista italiano di passaggio o di un brutale marine che si impadronisce di un territorio sconosciuto per far propaganda. “Per questo ho chiesto aiuto a uno sceneggiatore argentino, Martin Salinas “. Che ha lavorato con Cuaron e ha scritto Nicotina, El embruyo e Gaby. Da reference system.  
Dalla conferenza stampa (anche in collegamento con Milano) di qualche giorno fa si è scoperto che Luchetti non è diventato credente durante le riprese, “ma adesso credo di più in chi crede”. Che si è trattato di una "missione impossibile" per il produttore Pietro Valsecchi anche all'interno di una carriera che pure ha sfornato un Ambrosoli e un Borsellino. E, continua Valsecchi "il film sarà proiettato in Vaticano con platea a inviti di 7000 poveri e bisognosi". Che il regista si è più che altro ispirato a The Queen e a quel tipo di cinema inglese sulla storia, “asciutto, che va al cuore delle cose” e che però un po' apologetico, poco sottilmente, lo è sempre. 
Allora il problema è proprio il cuore delle cose. L’interiorità di Bergoglio. Con i suoi scatti nervosi da generale gesuita capace di mandare al diavolo una suora peggio che un fascista una donna. Con i suoi difetti e errori e gesti sempre così ben misurati. Per esempio il papa - dicono gli intimissimi - non alza le mani al cielo in modo plateale, e fa colazione mangiando in piedi frettolosamente una banana. Qui invece si fa la zuppetta nel caffèlatte, in attesa del conclave. Non c’è piedistallo. Non c’è apologia. Non c'è culto della personalità. Bene. 
Ma se il film è un film inchiesta non ci siamo. Il vero nodo interiore della biografia di papa Bergoglio è il suo rapporto politico con il movimento da cui è nato e che continua tutt'oggi. Il suo peronismo, versione Guardia di ferro. Certo. Il nome è orrendo. E’ quello della organizzazione fascistissima rumena di Codreanu. Ma si tratta di una pura omonimia, anche se inquietante. In realtà il gruppo è stato fondato nel 1961 dal gallego Alejandro Alvarez, come organizzazione giovanile del Comando Superior Peronista, ala sinistra del movimento e per lo più agì nella clandestinità. Dopo il breve ritorno in patria, dall’esilio nella Spagna franchista durato 18 anni, dell’ex leader nazional-socialista, tra il 1973 e il 1974, si assistette però a una imprevista sterzata a destra della sua politica già funestamente nazional-socialista anche se orgogliosamente anti- americana. Peron tra l’altro appoggia il golpe di Pinochet stupendo gli anti americani e spinge sempre più l’ala sinistra del movimento, i Montoneros (un gruppo di ispirazione cristiana) all’opposizione e nelle braccia della lotta armata di difesa, contro i primi gruppi fascisti organizzati (la tripla A, per esempio, Allenaza Anticomunista Argentina). Gruppo paramilitare protetto dai poteri forti della marina dell'aviazione e dell'esercito (e collegato pure alla estrema destra giustizialista dell'ambiguo “stregone” José Lopez Rega), responsabile tra l’altro del massacro di Elzeida, dove una bomba in aeroporto uccise 13 persone e ne ferì circa 400 mentre Peron rientrava in patria. 
Dopo l’assassinio nel 1973 del sindacalista peronista "burocrate" Rucci, a lungo osteggiato dai Montoneros, e prima ancora in polemica con l’esecuzione nel 1970 del generale Aramburu, responsabile del golpe anti Peron del ’55,  la Guardia di ferro polemizza sempre più duramente con le posizioni favorevoli alla resistenza armata, si sposta verso il centro e assume una più forte connotazione religiosa, giungendo nella sua ultima fase ad avere rapporti stabili, per iniziativa di Alvarez con Comunione e Liberazione (ma anche Jaca book aveva una sinistra) e con Solidarnosc (idem), anche grazie all’intermediazione di Rocco Buttilione e di Jorge Bergoglio. Il gruppo si scioglie nel 1974, dopo la morte di Peron, ma cambia nome, resta coeso e appoggia Isabelita fino al colpo di stato del 1976. Durante la dittatura i dirigenti della Guardia di ferro sono salvati grazie a buoni rapporti con i vertici della Marina militare e anche alla capacità diplomatica, alla Richelieu, di Bergoglio. Come vediamo nel film.
Insomma il duello all'ultimo sangue fu tra due linee interne al paese e anche interne ai gesuiti, tra chi era vicino alla teologia della liberazione e a Camilo Torres e chi era con Bergoglio. Anche se nel film non si dà mai la parola alle posizioni. Per esempio a quelle di José Miguez Bonino, il prete protestante che stava pericolosamente intaccando, a favore dei protestanti, il monte fedeli cristiano....O a Marcella Althaus-Reid (l'importantissima teologa queer). C'è molta attenzione, giustamente, alla strategia promozionale della chiesa cattolica, specialità gesuitica. E in un interessante duetto viene rimproverato da un superiore a Bergoglio il suo desiderio di evangelizzare il Giappone. "E' vero che i cattolici giapponesi sono scesi in poco tempo da un milione a mezzo milione, ma tu sei più utile qui perché li faresti scendere a 50 mila". Aveva ancora bisogno di crescere, gesuiticamente. Ma i due gesuiti di estrema sinistra che lo combattono (e che verranno espulsi dall'ordine e dunque subito imprigionati e torturati) appaiono nel film i soliti giocondi utopisti idealisti votati alla morte certa che non vogliono lasciare la loro favela anche se armi e mitra furoreggiano. Il che non fu. 
Quello scontro divide in due ancora la società argentina, l'1% di potenti di Baires e il 99% di argentini sotto comando, e i neoliberisti, come il neopresidente pericolosissimo Macri ne approfittano di tanto in tanto per dare duri colpi ai ceti più indifesi. Tanto che peronismo e giustizialismo ormai sembrano solo sinonimo di Argentina. Una parola che ha perso ogni connotazione di classe.
Bergoglio che arriverà all’Arcivescovado dopo aver operato molto in favore dei militanti perseguitati di sinistra durante la dittatura, come si vede nel film (tra questi “Tito” Bacman, l'unico militante della Guardia di ferro fastidioso perché amico di molti montoners) mantenne poi sempre relazioni strette con il suo movimento, diffondendo anche in ambienti vaticani il pensiero della filosofa peronista e “guardista” Amelia Podetti  che distanziandosi dalla razionalità illuminista prospetta l’unità della fede e della ragione, contestando quest’ultima come unica categoria nella costruzione della conoscenza  (cfr la lettera enciclica di Papa Giovanni Paolo II “ Fides et Ratio” ). Bé, certo, un po' di intuizione e di amore per la ricerca ci vuole. Basterebbe leggere Dialettica dell'Illuminismo di Adorno.
Insomma un film inchiesta serio avrebbe avuto bisogno di spiegare di più quella spaccatura in seno al peronismo. E soprattutto analizzare se le posizioni di destra e di centro moderato (lo è mai? a me sembra estremista il "centro moderato") del movimento abbiamo favorito l’avvento della dittatura militare e della “guerra sporca anti sovversiva” ben più della trappola tesa dai settori oligopolistici e filoamericani di Buenos Aires e chiamata resistenza armata Montonerso o Erp (l'organizzazione armata clandestina comunista-trotzkista).  

Una rete di nodi storici ancora da sciogliere. Ecco la “preoccupazione” come chiave del mosaico di Luchetti. Preoccupazione che per esempio in America Latina il film possa non incassare un centesimo. Non a caso molta parte magico- irrazionale del film è dedicata a un santino che il gesuita Bergoglio distribuisce qua e là ai bisognosi di ultra-conforto (per esempio agli occupanti di una baraccopoli del centro di Buenos Aires che secondo il film verrà salvata da Bergoglio, mentre secondo la storia verrà immediatamente rasa al suolo e offerta in dono alle grande compagnie palazzinare appena Bergoglio uscirà dalla inquadratura). Segnamoci il nome di questa preziosa immagine sacra. Può essere utile. E' il santino della madonna dei nodi. Una Maria Santissima che scioglie i nodi si può ammirare anche in un dipinto del 1700 ad Asburgo, in Germania. Vestita di rosso è concentrata sul compito che le è assegnato: sciogliere i nodi grossi e piccoli di un nastro bianco aggrovigliato offertole dal fastidioso angelo di sinistra. Ma ecco che lei scodella il nastro, ormai libero e liscio, all'angelo di destra. La Madonna sta serena.

Il "bongo" di Francesco Carnelutti, l'attore di una generazione di ribelli da non dimenticare



roberto silvestri

Non temere è il titolo del suo ultimo film. Di Marco Calvise, ancora in post produzione. Ben gli si addice. Era un combattente, coraggioso. E, non mancava di confessare, “ho un caratteraccio”. 
L’attore e regista Francesco Carnelutti ci ha lasciato dopo una malattia non semplice, a 79 anni. E ha lasciato la sua inseparabile bicicletta, con la quale andava a far provini romani perfino a Monte Mario; i libri di Thomas Bernhard e un vuoto nel teatro e nel cinema italiano, al di là di ogni reference system (che funziona sempre alla rovescia, rispetto ai valori).
Dal suo eremo nell’isola d’Elba che aveva costruito negli ultimi anni, pietra su pietra, dopo una seria conversione cattolica, per entrare con ancor più forza nel mondo attraverso sensori spirituali diversamente appuntiti, in una sorta di dossettiano “esilio dell’Annunziata”, continuava a insegnarci a lottare per migliorare lo stato di cose vigente, con ogni mezzo, perfino la preghiera, se necessario, e che quel che importa è la conoscenza di sé. E a non giudicare mai ma, assai meglio, ad esplorare. La libertà non è uno slogan insensato, è combattimento contro forze possenti.
Un’altra via - meno individualistica di quella religiosa - al controllo dei nostri lati dark, è stata quella del gruppo artistico “informale” di cui faceva parte. Dei cineasti, degli scrittori, dei musicisti e degli attori laici e libertari della sua generazione. Dei trentenni e quarantenni del 68. Almeno li immaginiamo come una moltitudine involontariamente affiatata. I cantautori della guerra fredda, anzi sarcastica, come Maria Monti, Margot, Fausto Amodei, i Gufi, Michele Straniero, il Cantacronache di Italo Calvino, Fiorenzo Carpi, Bosio, Enzo Jannacci quasi tutti del nord, come lui. E prima di Luigi Tenco e Paolo Pietrangeli.
Alle loro spalle di performer virtuosi l’aggressività poetica incorporata da Marlon Brando (che non a caso ha doppiato un paio di volte) e James Dean e distillata, radiante e più potente, grazie a una tecnica cristallina più istintiva. Incidere a lettere di fuoco la propria alterità. E quel tocco surreale, naturale, da commedia dell’arte. E quella smarrita malinconia brechtiana… Mettersi di spalle, girarsi e non parlare dritto di fronte agli occhi era tecnica da Actors Studio che ereditarono anche i musicisti black della free jazz generation. Ma in Italia questa “maleducazione cool” diventava il segnale di una preoccupazione ereditata dalla guerra fredda. Le spie. Il controllo. L’emarginazione sociale cui venivano sottoposti i militanti e i simpatizzanti del partito d'opposizione eterna. La trascuratezza nella tenuta della propria persona diventava gesto antagonista, il simbolo di una igiene fisica e mentale superiore. Proprio come ci indicavano Kerouac e Ginsberg. Guardare a oriente, piuttosto che al medio oriente. Estremisti, non moderati. Tra i comunisti italiani e i ribelli di oltreoceano (e gli esistenzialisti francesi) c’era dunque contatto profondo.  Il cosmopolitismo così raro nei nostri attori spesso incapaci di suonare la musica di altri, le armonie altrui. Anzi perfino di interessarsene.

Indimenticabile, tra le sue performance da protagonista, ed emblematico in questo senso il suo Mehdi Ben Barka, il leader socialista che vinceva troppe elezioni democratiche a Rabat e che dunque, braccato a Parigi dai mostri torturatori della monarchia marocchina, con la complicità del governo francese, nordamericano e del Mossad, doveva essere brutalizzato e assassinato per ricostruire l’ordine mondiale. Successe il 29 ottobre del 1965. Il ministro degli interni di Rabat, Outfkir se ne vantò a lungo, occupandosi personalmente della chirurgica esecuzione. E tutti ad applaudirlo. Quella via moderata alla repressione di ogni istanza di libertà in Maghreb e Mashreq ci ha portato così direttamente e allegramente tra le braccia tatuate dell’Isis. Che si tratti di una trappola ben congegnata è ormai palese…
La regia di quello strano sceneggiato tv-film-documentario del 1978 (da Rai servizio pubblico, sebbene carente) Ho visto uccidere Ben Barka era di un cineasta importante e troppo oscurato, Tomaso Sherman. Lo potete trovare su You tube. E’ una lezione di storia indimenticabile. Tra gli attori c’erano anche Jacques Sernas, l’ex Paride, e Bruno Cirino, nel ruolo di un losco e nevrotico villain, che faceva parte della "brigata Garibaldi" del nostro cinema.  

Volti da poeta e fisici da facchino o, come quello di Pasolini, da giocatore di calcio. Gian Maria Volonté e suo fratello, Laura Betti, Bruno Cirino, Riccardo Cucciolla, Cosimo Cinieri, Duilio Del Prete, Franco Citti, Dario Fo, le molto più giovani Ludovica Modugno e la situazionista Olympia Carlisi, l’onorevole a venire Carla Gravina…
Francesco Carnelutti che ci ha lasciato ieri mattina, sereno negli ultimi giorni di agonia, faceva parte di questo “gruppo”. Anche se non lo erano, o erano cittadini rivoluzionari anche peggiori, sono stati “i comunisti” scarnificati della nostra scena artistica. Facevano paura alla settimana Incom e alla tv di Bernabei più di Vittorio Gassman e Renato Rascel. Mica era facile scritturarli. Erano i sanculotti della nostra recitazione. Bisognava importarli dall’estero gli anti eroi digeribili, perché esotici, Tomas Milian, Lou Castel, Tina Aumont, Pierre Clementi, Jean Pierre Leaud, Eli Wallach, Clint Eastwood, Lee Van Clift… per non creare troppa indignazione.

Davanti ai “comunisti” nostrani e virtuosi e dentro i loro personaggi il paesaggio sconsolante di un paese da riplasmare. E i ricordi traumatici della guerra e della fame, dell’odio incivile del conflitto fratricida, che l’immemore generazione appena successiva, quella di Victor Cavallo, Rudiger Vogler, Klaus Kinski, Fabio e Mario Garriba, Daniela Gara… avrebbe frainteso o mal interpretato, smorzando l’efficacia e la forza devastante del 68 al crepuscolo.
Di fronte a Carnelutti, che forse era il più apollineo e spirituale del gruppo, certo quello dagli occhi più profondi e insondabili, e di fronte a Volonté & Co., invece, il controcampo dell’Italia, devastata e desolata già negli anni del boom economico, per pochi.  Non avremmo traccia della scultura interiore degli anni di Fanfani e Andreotti, al di fuori di come li si distorce oggi, senza il passaggio di quella generazione indisciplinata di attori e attrici trgici, e se comici grotteschi al vetriolo, che seppero regalarci un “cuore sapiente”, una griglia di sentimenti fuori mercato e la capacità mimetica di incorporare e esorcizzare i mostri dc doc di ultima generazione (e quelli ancora più infami che spargevano bombe vigliaccamente protetti dagli organi di stato fino ad oggi). Altro che Adriano Sofri. C’è ancora un pezzetto di Italia, grazie a questi paladini della libertà, che si chiede "chi ha ucciso Pinelli lo sappiamo. Perché non si ricorda mai?" Mentre la stragrande maggioranza del paese oggi è felice di infuriarsi solo per un titolo disdicevole e ingenuo di Lotta Continua.

Addestrati nelle migliori università ma anche nelle  “scuole di strada” dei quartieri periferici, quando non era necessario che arrivasse in sezione Barca il moralizzatore, che li forgiarono anticonformisti, ribelli e mai accademici. Non avranno posseduto il prestigio fisico e la potenza demoniaca, a parte Laura Betti, di Marlon Brando. E neanche l’istino suicida e il fascino dell’abisso di James Dean, anche se il sentimento della morte li aggrediva e loro lo combattevano con una spiritualità laica, che ci sembrò più coraggiosa ed efficiente di quella religiosa. Ma anche i loro genitori per lo più borghesi li volevano professionisti o alti ufficiali e residenti nei quartieri alti. E non bohhemienne della Trastevere di allora.  O “suonatori di bongo”.  Il “bongo” di Francesco Carnelutti (suonare il bongo era la vera passione segreta e colpevole di Jimmy e Marlon, altro che recitare) è  stato la barca a vela e a remi dei veneziani, andar per la laguna senza l’aborrito motore. A 8 anni quello fu il regalo più bello ricevuto nella sua vita.
Regista, attore di teatro soprattutto ma anche attore del cinema e della televisione e della radio Francesco Carnelutti, se esaminiamo attentamente la sua filmografia incisiva, una settantina di film, dal 1969, è stato diretto spesso dai registi più coinvolti nello spirito ribollente di ciascun decennio, più coraggiosi a opporsi alle forze del male, di qua e di là della cortina di ferro. Miklos Jancso, per esempio (La pacifista, 1970). Theo Angelopoulos (Megalexandros, 1980, è l’anarchico italiano). Armenia Balducci, che sarà compagna di Volontà (Stark System, 1980). Peter del Monte (Irene, Irene, 1975). Fabio Carpi (Barbablu Barbablu e L’amore necessario, 1987 e 1991), Carlo di Carlo che con Antonioni sperimentava un altro tipo di immagine trascendentale, di tempo mentale, di  sguardo pensoso. Il critico di tendenza Ciriaco Tiso (Carillon, 1990) e il professore di semiologia e talent scout Gianfranco Bettetini (L’ultima mazurka, 1988). Maurizio Nichetti, sperimentatore ai confini tra virtuale e reale, animazione e animismo (Domani si balla, 1982)  E altri stranieri dalla grafica inquieta, come Peter Greenaway, nel suo film più affascinante e misterioso (Il ventre dell’architetto, 1987). E i giovani talenti emergenti e eretici nel fraseggio, come Massimo Guglielmi (L’estate di Bobby Charlton, 1995), dove fa “il professore”, i personaggi di intellettuale erano ovviamente i suoi cavalli di battaglia, omaggio al professore più vilipeso di tutti in quella generazione di partigiani criminalizzati, Aldo Braibanti; e ancora Giovanni Maria Maderna (L’amore imperfetto, 2001), Marco Simon Puccioni (Riparo, 2007), Angelo Orlando (Sfiorarsi, 2008) con la figlia attrice, Valentina con lui implicata da anni anche in un double-home movies ancora non montato. Sempre fuori come si vede dal cinema ufficiale nostrano, più facile ritrovarlo tra gli hollywoodiani più inquieti come Ron Howard che lo trasforma in un prelato vaticano nel sulfureo Codice da Vinci (2006). Atmosfere demoniache che gli si addicono, da fedele d’amore sempre combattente contro le forze del male, anche nella Setta dei dannati di Brian Helgeland (2003) e in Il nascondiglio di Pupi Avati (2007). 

Non c’è voce dai semitoni più intraducibili del gallese Anthony Hopkins, che sembra sempre Dylan Thomas quando parla. Ebbene, non poteva che essere Francesco Carnelutti la sua voce italiana.  Ha avuto spesso il coraggio morale di “rifutare il denaro che gli offrono”. Meglio il teatro. Fa anche il regista, Mal de viver, da Pessoa (dove debutta la figlia Valentina) e Maladie de la mort di Marguerite Duras.  Preferendo copioni fuori schema, come l’ultimo che è stato montato, Neuf Cordes di Ugo Arsac, artista francese di 23 anni che è in concorso al Festival di Torino.
Nato a Venezia i genitori lo volevano magistrato. Ovviamente. Era nipote del giurista esimio e omonimo. Ma di notte scappava al Piccolo di Milano, come Marlon Brando che si fece cacciare dall’accademia militare. Diventa assistente di Strehler e amico del (velista) milanese Gianmaria Volonté con cui lavorerà anche alla controinformazione sessantottina. E’ attivo molto in Rai, quando si poteva ancora fare (Autoritratto di Ugo Mulas), e anche quando è più difficile trovare parti interessanti (Ilaria Alpi, Don Matteo…). Non poteva mancare alla chiamata di Giuseppe Ferrara per il Caso Moro, con l’amico Volonté. Siamo nel 1986. Sarà l’ultimo segretario del Pci degno di nota.




Lo ricorda Corrado Franco (regista): 
Francesco Carnelutti tanti anni fa aveva splendidamente doppiato Rüdiger Vogler nel mio "Corsa in discesa". Gli somigliava anche fisicamente. Avevo subito legato con lui. Mi diceva: "Vedi, Corrado, io non sopporto più nessuno.." E io (molto più giovane di lui): "Ma no, Francesco, ma cosa dici, ma perchè, ma no, dai.." Bene, Francesco aveva ragione! Anch'io ora la penso come lui e non sopporto (quasi) più nessuno! (neanche me stesso..). Francesco era proprio una grande persona, umana, sensibile, buona, inquieta, intelligente. Mi piaceva il suo tagliente e sferzante sarcasmo. Un grandissimo attore. Sono contento di averlo conosciuto. Che la terra gli sia lieve.

giovedì 26 novembre 2015

Janis, di Amy Berg


di Roberto Silvestri 

Il rock a San Francisco. Negli anni d'oro. Blues e nuova consonanza, in crescendo frenetico, che non temono alcuna concorrenza allucinogena, perché hanno azione estroversa e contagiante. Feedback, la doppia articolazione dell'attivazione spirituale e della rigenerazione materiale. E anche. Simulazione di un gigantesco orgasmo che tutto è fuorché simulato. "Erano anni in cui credevamo di amarci davvero tutti", pig e square a parte, e non solo a Haight Ashbury, il quartiere hippies di Frisco (poi annichilito con l'aids), come racconta bene Janis, (fuori concorso alla mostra di Venezia, poi nelle sale scelte), bio-doc sulla pop star texana fuggita dal sud razzista proprio nella zona meno Amerika d'America, sopravvissuta per 27 anni alla catastrofe della civiltà occidentale. I genitori, i parenti, gli amici, i compagni di scuola, le lettere del suo archivio, i musicisti, i presentatori tv, i suoi amanti e le sue amanti (una parte soltanto, per lo più sono tutti scomparsi) la dipingono forte, piena di vita e di umorismo, "cattiva" come solo i veri buoni sanno essere, quasi inconsapevole del suo divino dono vocale, visto che da piccola era stata cacciata, blue note, dal coro. Poi la fuga in California, il Movement, l'alchimia acida tra folk, country, jazz; il contratto con la Columbia, l'abbandono della sua prima band, il viaggio a Rio, Warhol...

Un mito inscalfibile, non solo perché ha anticipato (muore nel 1970) il rinascimento femminista anche su Melody Maker e Rolling Stone, ma perché ha combattuto i fantasmi suoi e gli incubi del suo paese con una sincerità espressiva totale, dandosi completamente, totalmente al suo pubblico ("sul palco sembrava che si smembrasse davanti a noi, che si squarciasse il petto", racconta una sua groupie, l'attrice Juliette Lewis), con la voce roca, gli urli beat di Ginsberg, gli "scat" di Billie Holiday e i "gotta gotta gotta" rubati a Otis Redding. Nemici da sempre  i fanatici del Kkk subiti da piccola (a Port Arthur, "il posto più merdoso della terra") e gli  orrori in Vietnam, i bombardamenti di Nixon, My Lay, che l'hanno via via uccisa. Joplin se ne intendeva di emarginazione, ingiustizie, le parole delle sue canzoni lo provano, le registrazioni dei suoi concerti ci sconvolgono ancora per la forza coinvolgente del suo "contatto di massa". Ma Janis era così sensibile che senza eroina e tutti gli antidoti possibili a salvarla, per tutti gli anni di attività pubblica, naturalmente fuori dal paradisiaco e magico momento del concerto, sarebbe morta certamente molto prima, di dolore per i dolori del mondo. Sui titoli di coda John Lennon, un'altra vittima della gang Hoover/Nixon, fa capire che è stata una generazione davvero forte la sua per scampare all'autoannientamento totale da overdose. Forse non ci crederete ragazzini di oggi, ma questo è stato il favoloso, eccitante, guerriero ventennio sessanta settanta. Altro che anni di piombo. A meno che non si alluda al nostro libro sacro dei morti, da Hendrix a Janis, da Lennon a Brian Jones, la dove li si confonde con Malcolm X, Luther King, Fred Hampton, i fratelli Soledad, Pinelli, i morti dlele stragi ancora senza colpevoli.
Il documentario Janis (distribuito dalla società del Biografilm Festival) è di Amy Berg, filmaker losangelina impegnata politicamente e premiata permanentemente. La voce bianca più nera della storia musicale ha aperto la giornata rock di oggi, dando forse un po' troppo spazio ai parenti della vittima e mai la parola agli studiosi e ai critici musicali, dande certo per scontato o già trattato il contesto culturale, storico e politico nel quale ha vissuto e si è esibita la grande rock star nella sua breve vita, felice/infelice. Ma dopo gli anni 70, reggae e punk a parte, qualche fiammata glam, e certo hip hop, la musica rock è diventata un affare come gli altri, un business più addomesticabile.

A bigger splash di Luca Guadagnino . E Dio esiste e vive a Bruxelles

Paul Thek, Il tuffatore 1969


Roberto Silvestri



I due film della settimana, che escono quasi contemporaneamente nelle sale italiane, sono una coproduzione italo-greca, A bigger splash di Luca Guadagnino, con quel titolo che rievoca tanto un dionisiaco e "fumatissimo" reggae sunsplash dell'epoca Bob Marley e Peter Tosh e una commmedia nera dal titolo provocatorio e blasfemo, Dio esiste e vive a Bruxelles, del geniale cineasta fiammingo Jaco van Dormael, qui pigramente adagiato, ma sa tirare colpi al ventre che raggiungono l'obiettivo, su un copione stipato di gag, lazzi e scherzi da prete tratti dalla tradizione blasfema e anarchicheggiante alla Hara Kiri. E' proprio il momento adatto per una pellicola così. Soprattutto per rispetto a Charlie Hebdo e pensando al Belgio del coprifuoco di questi giorni e ai belgi come sono stati maltrattati da Baudelaire e dai francesi di oggi piuttosto furibondo con la leggerezza poliziesca del piccolo vicino. Perché questa farsa serissima si presenta fin dal titolo come una controparabola cristiana (oltretutto parafemminista) e alla Pap'occhio che titilla i nostri piaceri più sarcastici, goliardici e proibiti, pur affrontando serie tematiche religiose, come la grazia, la predestinazione, il libero arbitrio, il senso di colpa e il ruolo imprecisato della donna. Dissacrare in fondo non è il cuore del nostro (esageratamente magnificato come nostro, ma a me sembra di tutta l'umanità non dominante) stile di vita? E quale attore più dissacrante di Benoit Poelveroorde, l'Alvaro Vitali transalpino,  per strappare la parte più ambita di tutte, se se ne vuole dare una versione anticlericale e da epoca Web? Il web sa scatenare i nostri istinti più sadici e abominevoli, egoisti e bisbetici e attraverso il computer si può punire eternamente tutte le creature viventi. E tenerle sotto controllo. Figuriamoci dio come si divertirebbe a immaginare quei misteriosi e imperscrutabili sui disegni sul Mac. Ma. Sostituite dio con il "sistema globale militare industriale" e comprenderete il succo obliquo e secrettato della parabola. La figlia di dio in persona, e la moglie di dio in persona, tradiscono il patriarcale tiranno e, diffondendo via computer tutto ciò che non si deve mai sapere, se no l'anarchia impazza, fanno saltare il giocattolo. Come Lassange con Washington.  Basta svelare a ognuno il giorno della propria morte. E a quel punto il divertimento macabro prende il sopravvento. Dio insegue la piccola peste che nel frattempo si è creata una corte di apostoli, secondo i consigli del fratello maggiore, che la sa molto lunga, e a Bruxelles si svolgerà una caccia divina all'ultimo sangue.
Ma blasfemo è anche il film di Luca Guadagnino, solo che il suo irridere è formale, è nei linguaggi compositi che si utilizzano - spesso male come ci ha spiegato perfino Muccino, antipasoliniano irriducibile -  nel raccontarie storie in immagini sonore. Guadagnino, italo-maghrebino, mamma algerina, nei suoi film mescola sempre un piacere narrativo tutto suspense hollywoodiano e un gusto grafico per l'arabesque musicale che il fido montatore Walter Fasano rende spiazzante e acido grazie a controtempi, trance improvvisa e deliranti racconti. Non a caso la tesi di laurea di Guadagnino, allievo di Giovanni Spagnoletti, è stata un radiografia di un maestro, Jonathan Demme, drastico formalista dal cuore sapiente.  Inoltre i suoi film che conosciamo e apprezziamo (a cominciare dagli epicurei Melissa P. e da Io sono l'amore)  sono speciali nel panorama italiano per una atmosfera accecante e solare e una sensualità dionisiaca, più che gay, sparsa ovunque. E, a proposito di amore.
Si fa sempre l'amore in quattro, anche quando si crede di farlo in due. E anche quando si crede di farlo tra un uomo e una donna. Parola di Lawrence Durrell che era più di un raffinato scrittore, un conoscitore delle nostre zone più dark, individuali, bisex, sfuggenti e collettive. Quattro è il cuore numerico di una rock band del periodo d'oro, 60-70. Beatles, Rolling....Monterrey/Woodstock... .E cos'è una rock band, soprattutto californiana, se non emozioni forti ed estreme in interfaccia, che si scambiano, in poliritmia, elettricità e corpi, palco e platea, musicisti e pubblico? Il film di Guadagnino è suonato da un quartetto. Quattro strumenti. Molti e avulsi intrecci erotici. Però il rock non è più quello di Janis. E' diventato business gelido. Ha il profumo di Rod Stewart, piuttosto. Ecco perché Tilda Swinton, che qui è la super star del palcoscenico, è afona. E' senza voce. Metafora del non saper cosa dire in questi tempi oscuri e senza via di scampo. In un film musicale libanese girato durante l'assurda guerra di allora, prove generali dello scontro babelico di oggi tra rivoluzionari (allora maoisti), sciiti, sunniti, maroniti, ebrei, la protagonista era una cantante, che aveva perduto la voce. Ed era un capolavoro. Come questo. Che ci trasporta in una bella villa con piscina nell'isola incantata di Pantelleria. Un panorama curiosamente simile a quello dell'ultimo Barbet Schreoder (anche se lì siamo a Ibiza, nella scena dee-jay anni 90).

Janis Joplin avrebbe detto: "Ibiza, Pantelleria, sì, posti esotici, come Lima, come Acapulco, come il nord Africa, uno di quei luoghi cool che piacciono tanto ai fighetti....". Ma oggi Pantelleria non è solo questo. Siamo dentro un eurofilm su commissione, finanzia Studio Canal. Ma l'effetto finale sarà quello di un eurogol. Una immagine agghiacciante lo chiuderà. E sembrerà un ricordo, un sogno di Brian Jones. Ma in realtà è come il requiem per i morti nel Mediterraneo di Isaac Julien. Un remake, questo A Bigger Splash, che fa la critica dell'economia immaginaria dell'originale francese del 1969. Mette molto sesso liberato e asimmetrico nel cinema italiano di oggi senza la concentrazione ossessiva di Tinto Brass. C'è aria profumata d'afghano alla Bertolucci, e non solo per la villa e per la piscina (un gigantesco Corrado Guzzanti maestro in comicità surreal-dadaista, che non ha neanche bisogno di alzare il tono, anche se fa il Benigni della situazione e impersona un carabiniere, ma non come nelle barzallette, lasciando perplessi chi al cinema è malato di muzak) e per Dakota Johnson, intrappolata col velluto, come successe a Liv Tyler. C'è la violenza viscontiana, con citazione quasi filologica di Ossessione, i due amanti nell'automezzo, a delitto compiuto. C'è l'horror di Mario Bava, un maestro nel kammerspiel dark.  E questo disomogeneità di riferimenti è ancora considerata molto scandalosa.
Torna il quartetto sentimentale di La Piscina, allora, a Maggio da poco sconfitto, un irritante e calligrafico pezzo di "cinema di papà", regia professionalissima (questo il guaio) di Jacques Deray, in realtà veicolo per il duo divistico "Alain Delon e Romy Schneider" alle prese con un borghesissimo doppio triangolo incrociato (grazie a una Jane Birkin come al solito polivalente) ambientato nell'ambiente intellettuale più banale (scrittori agiati). Oggi la piscina torna ad essere sessantottina, è in una villa a un passo dall'Africa, terra che il regista Luca Guadagnino conosce molto bene, e che quanto a soggettività desiderante sta dando una lezione a tutto il mondo (almeno a Tunisi). E siamo nel secolo dopo. Pantelleria vuol dire certo tragedia dell'esodo. Battelli, polizia, fuga, speranza... Ma vuol dire anche Claudio Baglioni, a proposito di pop music. E Baglioni è, ci crederete o meno, un mito della controcultura americana. Il regista Paul Morrissey, il braccio destro di Andy Warhol, lo adora... Piace a Morrissey la melodia e l'armonia pacificata, quel rock mediterraneo disintossicato dai veleni chimici della droga. Anche molto rock anglosassone è stato devitalizzato, dopo le grandi tragedie, e i grandi decenni, sono famosi gli strali dei Clash contro tutto il mercato rock british dell'epoca, Rod Stewart in particolare. Gruppi divisi per generi, incasellati come nel supermarket. Suoni preconfezionati e standardizzati. Poi salta sempre fuori qualche gemma. Qualche tesoro euritmico...Marianne (Tilda Swinton che omaggia la Faithful?) è sicuramente uno di questi. Ci crediamo sulla fiducia. Una specie di novella Annie Lennox. Altra consonanza, una rotondità di fraseggio che può far venire i brividi e fare impazzire più di un assolo alla carta vetrata di Syd Barrett.  La metafora del senza voce è geniale.  L'incredulità con la quale abbiamo assistito alla distruzione di ogni centro tranculturale, dalla Turchia purificata di curdi armeni ebrei e greci, a Beirut e Sarajevo, da Baghdad a Damasco, lascia senza parole. Si vuole costruire un mondo dominato dagli Orban e dagli Erdogan su modello asettico e monorazziale della Corea del Nord o molto peggio dell'Isis? Gli artisti non riescono più neanche ad urlare come Ginsberg, come Havel, come Zappa....
Nel film di Deray erano due letterati, a battersi per una donna. Cinema da boulevard. Qui siamo tra artisti diversi. Audiovisivi. Una star del rock che appunto ha perduto momentaneamente la voce (Marianne), un fotografo emergente (Paul) che è il suo nuovo amante; un genio della produzione discografica, dal passato mitico di manager dei Rolling Stones (Harry), ed  ex di Marianne, e sua figlia Penelope, appena conosciuta in effetti, potrebbe sembrare la sua amante Lolita, è tra il misterioso e il catatonico, il banale e il sublime, come si usa tra le millennial alla moda.
Con Walter Fasano al montaggio, la sezione ritmica è assicurata. il film pulsa, svisa, riffa. Mai una inquadratura è quella che spaziotemporalmente ti aspetti.Yorick Le Saux, che disciplina le luci, ha il compito di congelare il surplus di calore africano e di riscaldare le ombre più sinistre. Il quadro è un continuo controbalzo. Via il folklore meridionale. Il divo fiammingo emergente Matthias Schoenaerts offre il suo corpo di granito e macho, una sorta di Putin cubista, al desiderio gay (e senza bisogno di mettersi una barba posticcia come un combattente del daesh). Si parla di Hockney, no? Ralph Fiennes e Tilda Swinton sono per Guadagnino come gli Experience per Jimi. I loro gesti e i loro sguardi sono la storia universale di quel gesto e di quegli sguardi. Hanno il compito di inventare per un film pop, fluido, melodico (e iper realista, alla Hockney, dice il regista)  un tracciato sotterraneo e alternativo espressionista. Un basso continuo dissonante. Tanto che alla fine del tragitto l'energia che scagiona da questo film è simile all'energia Janis o Jimi. Come se Guadagnino si volesse ricollocare, tramite La piscina al 1969, all'anno in cui fu girato. Un viaggio nel tempo affascinante. La prova è nell'invettiva politica finale, inaspettata. Quando la tragedia dell'esodo "biblico" contemporaneo conquista e non strumentalmente il primo piano. In quell'attimo, nell'agosto 1969, un altro pittore dell'avanguardia statunitense, poi morto giovane di aids, amico di Warhol, dipinse "il tuffatore". Nella piscina. Il quadro che abbiamo messo in testa alla recensione. Autore un altro Paul. Paul Thek. Pittore da riscoprire. Proprio come questo film. Non basta una visione. Magnifiche visioni.  

lunedì 23 novembre 2015

Libri di cinema. Un classico sulla commedia sofisticata.







Stanley Cavell. Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio. 24 euro Einaudi. 1999. Traduttore Emiliano Monreale







di roberto silvestri 


“Si impara sempre qualcosa da qualunque film americano anche stupido, ma mai nulla da un saccente film inglese”. 
Semplifichiamo a memoria la celebre frase di Ludwig Wittgenstein scritta negli anni trenta, quando la commedia, il western, il musical e l’aspro dramma social-gangsteristico sono i generi principi di una Hollywood fabbrica di sogni ma anche di identità, che racconta la storia antica mentre fa storia contemporanea, tra ‘teoria della frontiera’ e ‘new deal’ come progetto inedito, fiaba quasi utopica, coreografia sincronizzata, per un attimo, tra classi sociali, sessi e melting pot in furiosa lotta. 
E se Martin Scorsese nella sua piccola, recente storia filmata (e privata) del cinema americano rimuove la commedia, perché gli sembra ovvia, è proprio ai botteghini dei film di Frank Capra e Howard Hawks che, durante la depressione, milioni di assegni di disoccupazione trovarono il loro più razionale senso facendo scandalizzare gli storici liberal più austeri. 
Lo spiegherà più tardi e li prenderà in giro Preston Sturges allora sceneggiatore poi diventato (non tanto facilmente) regista, in “I dimenticati”. Far ridere, vendere gioia, far dimenticare i guai della vita ai derelitti, agli sfruttati, ai poveri, ai carcerati. Produrre estasi, trance, deliri, fuoriuscita da sé. Evasione. Prefigurare ipotesi di giustizia, mondi nei quali i sopraffattori siano sopraffatti. Ecco un buon progetto di cinema militante o almeno consapevole, per un regista che voglia toccare il cuore sapiente del pubblico e innalzare il livello di coscienza politica sua e del proletariato tutto, infiammare le masse, progettare rivolte, almeno interiori. Non si comunica un bel niente se non si riesce a trasmettere direttamente, faccia a faccia - tramite la critica più spietata, la risata – e guardandosi negli occhi, non dall’alto in basso, il “grande no” allo stato di cose presenti. Stanley Cavell

E contemporaneamente produrre un grande sì alla vita, perché l’America è la terra dell’entusiasmo atletico e esuberante che fu cristallizzato nelle acrobazie cinetiche di Douglas Fairbancks sr. E anche l’unico che voglia garantire la felicità del popolo,  almeno secondo le Leggi fondative. Senza comicità, insomma, niente rivoluzione in occidente. Quando la dimentico, la Russia crollò come Urss.
Qualche decennio fa la Raitre di Guglielmi, per miracolo irripetibile, scodellò trenta commedie americane anni trenta, griffate La Cava, Hawks, Capra, Lubitsch... E per merito delle dense e aguzze presentazioni di Vieri Razzini (e dei sottotitoli che per la prima volta non deturparono la prima meravigliosa voce sullo schermo, quella di Jean Arthur) penetrò anche nel nostro immaginario così ben protetto da gerarchie cattoliche sanguinarie, materiale ludico sovversivo proprio perché finalmente spiritosamente non integralista. 
E siccome la commedia dei primi anni trenta è marxiana (i fratelli Marx), distruttiva (Fields), lussuriosa al limite del codice penale e ben al di là del perbenismo fascista (Mae West), corrosiva (Lubitsch), surrealista e dadà, cosa successe poi perché divenne nel corso del decennio “a glow of satisfaction”, ancor più “sofisticata” nei set e costumi, screwball (svitata) nel ritmo pazzo e capace di “riconciliare gli irriconciliabili”, di prefigurare la perfetta unità della coppia eterosessuale, sebbene sempre sul punto di disfarsi (l’omosessualità ne fu il controcodice quasi impercettibile)? Fu la fine della paura, della fame e della disoccupazione?
Il volume miliare dello studioso (e anche regista) Andrew Bergman “We’re in the money”del 1971 resta un classico del cinema rooseveltiano, il primo, di sinistra, che non vuole piu’ declinare insieme populismo e progresso. Anzi, ne divarica gli esiti. I populisti odiarono Roosevelt e da allora si spostarono per sempre a destra, traducendo forza lavoro con gente e classe operaia con cittadini.
Ma non della sola commedia tratta quel saggio, e si concentra, in questo genere, solo sul Capra commediante. Edoardo Bruno, più recentemente, alla commedia ha dedicato un volume prezioso, perché ricco di idee oblique (Pranzo alle otto). Ma solo adesso, grazie a questo incalzante testo post-cinematografico scritto dal pensatore di Harvard che si è anche misurato con la televisione, iniziamo a introdurci, attraverso sette commedie sofisticate perfette, Accadde una notte di Frank Capra, Susanna e La signora del venerdì di Howard Hawks, Scandalo a Filadelfia e La costola di Adamo di George Cukor, L'orribile verità di Leo McCarey e Lady Eva di Preston Sturges, scovate dal filosofo cinefilo Stanley Clavell (suo anche The World Viewed) dentro le stanze della tortura d’immaginario. Un laboratorio dove il vecchio mondo viene straziato dalla “gran dama”. E nasce la donna nuova americana, più che suffragetta, più che flapper, più che emancipata, la persona che punta al potere, e non solo simbolico (Eleonor Roosevelt, non una semplice consorte, ne è l’interfaccia a Washington)  - a differenza della sua collega europea, sottomessa ancora perché ha subito in termini di potere politico la carenza di uomini dopo il cataclisma della prima guerra mondiale che ha ridotto in cenere 10 milioni di soldati ventenni. Le basterà rassegnarsi a regnare nelle quinte, paga dell’adagio “dietro un grande uomo c’è una grande donna”. Ma la Serpieri nulla poté con il narcisismo del macho duce. E Mussolini attaccò l’Etiopia.
Invece in Usa. Nuova donna, nuove idee. Anche se Clavell utilizza antiche teorie protoeuropee ancora fertili per scavare nel substrato archetipo della commedia sofisticata, e quel terreno, rimosso e capovolto, è griffato non solo Freud, Nietzsche, Emerson, Kant….ma affonda le radici perfino dentro la contrapposizione tra commedia attica delle origini e della decadenza.
Quelle arcaiche suggestioni che restano fuoco e non cenere e che danno alla civiltà occidentale ancora una chance. Che le permettono di ipotizzare, dopo sicure complicazioni non solo erotiche, e il superamento di non facili ostacoli, un processo di trasformazione morale e maturazione interiore. E dolo la necessaria morte simbolico ecco che si giungerà a un ulteriore… ri-matrimonio con la storia. Eccitante come quello tra Rosalind Russell e Cary Grant in “My girl Friday” o tra lo stesso Cary Grant e Katharine Hpeburn in “Susanna”. Certo: ma perché bisogna aspettare venti anni per avere avere a disposizione tradotti i grandi classici della critica cinematografica? Siamo ormai alla crisi verticale anche dell’editoria? Oppure è troppo forte per il nostro sistema mentale bigotto concepire che il grande amore che ci trasforma in invincibili è l’unione non facilmente ipotizzabile tra un lui “in trance” e una lei in delirio come Cary e Kathy?     Leggere in questo senso il capitolo III, intitolato “Leopardi nel Connecticut” ci farà capire di più il retrogusto comico di Il giovane favoloso di Mario Martone.