martedì 29 settembre 2015

Roca and Roll. Janis. Solo domani, a Roma all'Adriano

Roberto Silvestri

Domani mercoledì 30 settembre i romani non possono perdere, alle ore 21, al cinema Adriano, Janis Little girl blue film non classico dedicato ai nove anni d'oro (1962-1970), sue origini e conseguenze, della wicked woman più adorata dal movement, la ragazzina cattiva e immorale, di una bellezza talmente abbagliante da sconfinare nei territori aspri del brutto, là dove secondo Karl Kraus si tocca lo stato della favolosità, che ha sconvolto il mondo, non solo del rock-soul. Proiezione unica-evento che si spera lancerà il docubeautiful in tutta Italia, a tenitura fissa. Perché Janis e Jimi sono stati gli angeli custodi melanconici ma inossidabili di un magnifico esperimento alchemico di massa avvenuto nella seconda metà del secolo scorso (e riuscito solo a metà) che ha profetizzato una sorta di liberazione dei costumi, rigenerazione della moda world e globalizzazione anti sistemica dal basso...  Lei bianca dalla voce miracolosamente black, lui black che suonava e cantava come Bach avrebbe gradito. Rock come moltiplicazione delle identità vocali e spirituali.  

Jimi & Janis
Si fa sempre l'amore in quattro, oltretutto, anche quando si crede di farlo in due. Parola di Lawrence Durrell che era più di un raffinato scrittore, un conoscitore dei nostri angoli interiori più dark, individuali, bisex e collettivi. Ora, quattro è anche il cuore numerico delle rock band del periodo d'oro, 60-70. Beatles, Rolling, Equipe 84.... Monterrey/Woodstock... . E cos'è una rock band, soprattutto californiana, se non overdose totale, transproduzione di trance, emozioni forti ed estreme in interfaccia, che si scambiano, in poliritmia, elettricità e corpi, palco e platea, musicisti e pubblico?

Blues e nuova consonanza, in crescendo frenetico, che non temono alcuna concorrenza allucinogena, perché hanno azione estroversa e contagiante. Feedback, la doppia articolazione dell'attivazione spirituale e della rigenerazione materiale. E anche. Raddoppiamento di un gigantesco orgasmo che tutto è fuorché simulato.
"Erano anni in cui credevamo di amarci davvero tutti", pig e square a parte, e non solo a Haight Ashbury, il quartiere hippies di San Francisco (poi annichilito con l'aids), come racconta bene Janis, (che fuori concorso è stato presentato alla Mostra di Venenzia 2015), bio-doc sulla pop star texana fuggita dal sud razzista proprio nella zona meno Amerika d'America, sopravvissuta per 27 anni alla catastrofe della civiltà occidentale.

I genitori, i parenti, gli amici, i compagni di scuola, le lettere del suo archivio, i musicisti dell'avventura con la Big Brothers and the Holding Company, i presentatori tv, i suoi amanti e le sue amanti (una parte soltanto, per lo più sono tutti scomparsi), i colleghi celebri e dimenticati la dipingono forte, piena di vita e di umorismo, "cattiva" come solo i veri buoni sanno essere, quasi inconsapevole del suo divino dono vocale, visto che da piccola era stata cacciata in malo modo, blue note, dal coro religioso di Port Arthur perchè di intonazione eccentrica.
Poi la fuga in California, il Movement, l'alchimia acida tra folk, country, jazz; il contratto con la Columbia, l'abbandono della sua prima band, il viaggio d'amore a Rio ("quel posto per fighetti"), i mille doloriche svanivano per incanto sul palcoscenico, Andy Warhol, la morte che ce la toglie via prima del previsto (molto prima dei 33 anni canonici), il disco d'oro, il grande successo di Cheap Thrills, la divinizzazione che serve sempre a smussare i lati insostenibili di una vita coraggiosa, fino all'ingresso nel 1995 nella Rock and Roll Hall of Fame, il Gremmy alla carriera e alla memoria del 2005, la conquista del 28° posto (?) nella classifica redatta dal periodico veteromaschilista Rolling stone dei cento singer migliori di tutti i tempi.  Restano di lei 8 album dal vivo e una ventina di raccolte in lp.

Un mito inscalfibile, Janis, non solo perché ha anticipato (muore a 27 anni) il rinascimento femminista perfino su Melody Maker e Rolling Stone, ma perché ha combattuto i fantasmi suoi e gli incubi del suo paese con una sincerità espressiva totale, dandosi completamente, totalmente al suo pubblico ("sul palco sembrava che si smembrasse davanti a noi, che si squarciasse il petto", racconta una sua groupie, l'attrice Juliette Lewis), con la voce roca, gli urli beat di Ginsberg, gli "scat" di Billie Holiday e i "gotta gotta gotta" rubati a Otis Redding e agli altri operai del soul.


Nemici da sempre  i fanatici del Kkk subiti da piccola (nella natia Port Arthur, "il posto più merdoso della terra") e gli  orrori in Vietnam, i bombardamenti di Nixon, My Lay, che l'hanno via via uccisa per troppa sensibilità. Joplin se ne intendeva di emarginazione, ingiustizie, le parole delle sue canzoni lo provano, le registrazioni dei suoi concerti ci sconvolgono ancora per la forza ipnotica del suo "contatto di massa" (rivedere le sue performance a Monterrey e a Woodstock fa capire come si verificò un contatto magico tra le teorie lettriste di Isou e la cosmogonia di Edgar Varese in un solo corpo vulcanico). Janis infatti era così veloce nella somatizzazione della sofferenz che senza eroina e tutti gli antidoti possibili a salvarla, per tutti gli anni di attività pubblica, naturalmente fuori dal paradisiaco e magico momento del concerto, sarebbe morta certamente molto prima di dolore per i dolori del mondo.

Sui titoli di coda dell'hippie-movie John Lennon, un'altra vittima della gang Hoover/Nixon, fa capire che è stata una generazione davvero forte la sua per scampare all'autoannientamento totale da overdose. Forse non ci crederete ragazzini di oggi, ma questo è stato il favoloso, eccitante, floreale, guerriero per la pace, inebriante ventennio sessanta settanta. Altro che anni di piombo. A meno che non si alluda, con questa espressione ripetuta a pappagallo per colpa di Vespa senza sapere bene cosa voglia dire, al nostro libro sacro dei morti, da Hendrix a Janis, da Lennon a Brian Jones, fino a John Belushi, là dove li si confonde con Malcolm X, Luther King, Fred Hampton, i fratelli Soledad, Pinelli, i morti dlele stragi ancora senza colpevoli.
Il documentario Janis, distribuito dal braccio operativo del  Biografilm Festival, è di Amy Berg, filmaker losangelina impegnata politicamente e premiata permanentemente (ha sfiorato l'oscar nel 2006 per Deliver us from evil) . La voce bianca più nera della storia musicale non viene inserita nell'atmosfera sociopolitca di quegli anni perché tutti li conoscono (quanti documentari sono statai realizzati sulle comete del rock) ma dando spazio spazio soprattutto ai parenti della vittima, e mai la parola agli studiosi e ai critici musicali, per arricchire i lati privati della grande rock star nella sua breve vita, felice/infelice. Ma dopo gli anni 70, reggae e punk a parte, qualche fiammata glam, e certo hip hop, la musica rock è diventata un affare come gli altri, un business più addomesticabile.

lunedì 28 settembre 2015

Che muoia Mexico! Contro Il Sicario di Denis Villeneuve



Roberto Silvestri 


Sicario (in anteprima a Cannes 2015, in concorso), con Benicio Del Toro mattatore, diretto da un cineasta nordamericano che va per la maggiore negli uffici di produzione delle major, il canadese francofono Denis Villeneuve, è un estetizzante e impolverato
film di genere (d’azione, un narco-thriller) ambientato in Messico. Se non fosse estetizzante non andrebbe ai festival e neppure nei circuiti d’essai d’essai di tutti il mondo (che non vivono i loro anni di gloria) dove ha spopolato soprattutto grazie ad alcune immagini raccapriccianti (ma dolcificate per non essere insostenibili come quella, iniziale, delle pareti barocche che nascondono decine di cadaveri) e che, così ben affogate dagli arabeschi di regia, anestetizzano la tragedia messicana in un balletto dalle cromature anti buoniste. Rischia il 5 stellette, e non solo sul Foglio, vecchia e nuova gestione.     
Questo tex-mex movie, zeppo di difetti perché si aiuta con orpelli luministici e iconografici quando maneggia i picchi forti di tutti i luoghi comuni del filone (non furono esenti neppure da solarizzazioni, estetismi gore e cinismi alla moda, Il procuratore di Ridley Scott, 2013, e prima ancora Steven Soderbergh di Traffic), come la solita ricognizione sulla efferata ferocia messicana, ereditata dall’epoca di Pancho Villa e di Ferdinando Sanchez, è più che reticente invece sugli interessi statunitensi nell’area più martoriata del mondo, lo stato di Tamaulipas, nel nord-est, lo stato di di Ciudad de Juarez. Ma è la major, bellezza.
E sottotraccia cosa leggiamo? Un pretenzioso e maschilista tentativo di fare la satira ai thriller di Kathy Bigelow, affidando all’attrice Emily Blunt che interpreta il ruolo di una giovane agente dell’Fbi di nome Kate e al suo make up smunto e pallido il compito di caricaturizzare, fino a renderle inutile, accessorie e inerti, le donne forti delle istituzioni, dall’agente federale Jodie Foster al gioiellino ribelle della Cia, Jessica Chastain, che catturò Osama Bin Laden perché molto più criminale di lui. Insomma il film entra pesantemente nella prossima campagna presidenziale Usa come un macigno, non subliminale, scagliato contro Hillary Clinton.  
In questo thriller "intimista", dove le ombre contano almeno quanto le luci, e con un titolo che profuma di plagio (El 

Benicio Del Toro in "Sicario" di Denis Villeneuve
Sicario di Rosi, così più inquietante e drastico da umiliare un mockumentary, non è mai uscito in Usa), Kate (l'idealista coriacea e molto fortunata, costretta a fare i conti con il realismo, cioé ad arrendersi, a giocare più sporco del nemico o almeno ad ammirare chi ci riesce) non viene sostituita dopo pochi minuti di gioco da un attore metrosexual, come in realtà avrebbero preteso la produzione, ma diventa lo zimbello del copione (del texano Taylor Sheridan), del rude e misterioso signore delle tenebre Alejandro (il portoricano Benicio Del Toro, ormai messicano honoris causa), del saggio patriottico e feroce agente speciale Matt Graver (Josh Brolin) - per il quale il mondo si divide solo tra i buoni, gli americani del nord, e i cattivi, il resto del mondo non nordamericanizzabile - e degli altri vecchi marpioni della Cia che chissà per quale motivo, - se non l’umiliazione, il ritorno a casa delle donne a far la calzetta - vogliono che prenda parte, giovane, inesperta e fragile, e ligia alle regole, alla più rude e confusa e ambigua delle missioni di guerra clandestina.
Annientare in terra straniera, e in missione segreta, un feroce boss della droga, questa è la missione segretissima Fbi-Cia-Dea. Per farlo si utilizza contro quell'imperatore del male un ancora più feroce serial killer messicano, un giudice (così come viene descritto dall’immaginario berluscoide). Un procuratore che vuole distruggere le cosche non perché è il suo lavoro e il suo dovere, ma solo perché gli hanno sterminato la famiglia. E la giustizia dei parenti delle vittime sappiamo quanto è spietata. Grande la lezione etica di Villeneuve! Ridateci Clint.
A Roma si usa un’espressione un po’ forte per dire che non è più tollerabile che non si spieghi in un film d’azione sul conflitto di coca e eroina che gli Usa distrussero all’inizio del secolo scorso l’economia allora florida del Messico, inventandosi l’assurdo concetto (tranne che per Giovanardi e per chi lucra nelle comunità di recupero) della marijuana e dell’hascisc come droghe pericolosissime da criminalizzare e proibire di più, anticamera delle droghe pesanti, etc. A proposito i Lautari chi li paga?
Emily Blunt (Kate) in "Sicario"
Ha spiegato tutto questo Grass pietra miliare del documentarismo su drugs & affini, diretto dal cineasta canadese Ron Mann, idolo della controcultura. C'è una risposta molto semplice a questo groviglio di questioni geopolitiche. La liberalizzazione. Ma non si fa cenno alcuno ai politici e ai giornalisti assassinati perché portavano avanti questa strategia che tocca interessi economici giganteschi.
Questo è il punto che il film, e molti altri film del genere non spiegano. Con le immagini che pure Villeneuve utilizza da prestidigitatore provetto  - tanto che gli daranno da fare il remake di Blade Runner perché sa mettere il bromuro visivo dappertutto -  e da esperto investigatore delle intenzionalità morali degli esseri umani (specialmente wasp o succedanei). Insomma il film finge di porre tutte le domande. Ma in realtà sfrutta solo il quoziente spettacolare regalato dal corpo e dal volto di Benicio del Toro che ormai somatizza in se tutto il fascino perverso delle sostanze stupefacenti (non solo grazie a Traffic).   E sì che stanno morendo decine di migliaia di persone lì, attorno a Ciudad de Juarez (anche Giuseppe Gaudino e Isabella Sandri ne hanno parlato in un bel doc di qualche anno fa, per non ricordare Lourdes Portillo, la prima cineasta a indagare da quelle parti). Tra droga, sfruttamento schiavistico della manodopera a basso costo nelle fabbriche Usa della globalizzazione, immigrazione clandestina, machismo, corruzione, in un intreccio inestricabile di interessi che coinvolgono corpi separati o riunificati dei servizi segreti messicani e statunitensi, polizie dei due paesi, politici dei due paesi, uomini d'affari dei due paesi. Cambiata la struttura monopolistica e piramidale del traffico (che faceva capo alla gang colombiana di Escobar) e diventata policentrica la criminalità neoliberista (insomma siamo nel dopo Traffic, c'è il cartello super militarizzato del Golfo che combatte contro la gang altrettanto militarizzata dei Zetas, e così via), che ruolo gioca il governo Usa oggi per influenzare, controllare e sfruttare questo groviglio di mercato? Con chi si allea?  Quale il suo disegno strategico? Non c’è niente di questo, solo rullio e becheggio da video gioco. Come quella collezione grottesca a macabra di dozzine di cadaveri appesi nelle intercapedini di una casa-covo a far da tappezzeria spettacolare alla scena d'apertura. Che muoia Mexico! 



giovedì 24 settembre 2015

Dio abita in Nepal. "Everest"

Mariuccia Ciotta



Everest, che ha inaugurato, fuori concorso, la Mostra di Venezia n.72 ci ha accompagnato sulle vette se non del cinema di un Nepal  ghiacciato idealmente luogo dell'aldilà, meta di scalatori perlopiù dilettanti che affollano le pareti della montagna più alta della terra, dove l'aria è così rarefatta che il corpo comincia a morire nell'avvicinarsi al “tetto del mondo”, 8.848 metri.
Un film meno sfolgorante del due ultimi film di apertura, Gravity (2013) e Birdman (2014). Eppure.
Everest non è un film catastrofico stile anni 70 in ascesa di pathos e in attesa di scene madri. E' un docu-film ibrido (girato un po' in Nepal, un po' a Cinecittà) ricalcato sulla storia vera di una spedizione del 1996, bilancio 5 morti. Pochi. Negli anni successivi le vittime si moltiplicarono. Agenzie di avventure estremamente pericolose, nel film e nella realtà, si dividono i turisti, e competono, tra sponsor e foto-reporter, per conquistare le piste e le date migliori. Sessantacinquemila dollari ha pagato il patologo texano interpretato da Josh Brolin per farsi portare lassù dalla tenera, protettiva guida Rob (Jason Clarke) e così gli altri che davvero partirono il 10 maggio del '96 dal campo base himalayano.



La schiera di star in rapida apparizione (e sparizione) sono l'unico dato in comune con il genere, e qui le facce note sono (a parte Brolin e Clarke, protagonisti) quelle di Sam Worthington (Avatar) Keria Knightley, Emily Watson, Jake Gyllenhaal, Robin Wright.


Devia dal format valanghe, terremoti, eruzioni, invasioni di api assassine etc il regista islandese Blatasar Kormàkur, attore e produttore, autore di 101 Reykjavík (2000) Inhale (2010), Contraband (2012). Il suo The Deep ha corso per l'Oscar straniero 2012, anche questa una storia di resistenza e sopravvivenza (naufragio sulle coste islandesi) in un'isola dove la natura oltre a essere estrema è anche “commercializzata”.


Everest documenta i passaggi, i dettagli tecnici, le procedure di una follia collettiva e internazionale che si riunisce come una congrega religiosa, si ammucchia sotto le tende piantate nelle neve, e cova i suoi piaceri nascosti - toccare il cielo - anche se costerà qualche dita della mano e dei piedi. I corpi trascinati, boccheggianti, senza fiato... il cervello può schizzare, i polmoni sono a rischio, avverte la guida, non saranno solo le tempeste a uccidere ma soprattutto la montagna che non è un paese per uomini, e neppure per donne (nella vera spedizione morì l'unica scalatrice, giapponese).



La carovana sale con l'aiuto dei portatori d'alta quota provenienti dalla popolazione sherpa, che non rischiano più di tanto, sanno che Shangri-La non esiste, che dio non abita sull'Everest, e che è meglio tornare indietro se la montagna lo chiede. Ma perché questi ricchi signori in gran parte occidentali si rivolgono a ”Mountain Madness”? La domanda viene finalmente posta. E qui Kormàkur mette sotto la luce radiante dell'Everest il malessere dei suoi dilettanti. Non tanto il trofeo, non tanto l'adrenalina, ma a spingere in alto è un'esistenza ferita che solo lassù dimentica se stessa. La sofferenza fisica inflitta dalla montagna spazza via l'altra, impalpabile come la neve.



Il film (in sala da oggi  24 settembre) risente di inserti lacrimosi, mogli incinte all'altro filo del telefono, e concede a produttori e distributori (Universal) quel tanto in più di azione e emozione, col rischio di apparire un dejà vu. Ma c'è qualcosa di sconcertante in Everest, una caparbietà atletico-spirituale da far invidia a Werner Herzog, ma anche al Clint Eastwood di Assassinio sull'Eiger. E poi si impara che a una certa altezza gli elicotteri non possono volare perché l'aria è insufficiente e l'elica gira a vuoto, a meno che non sei un “texano al 100%”, allora si mobilita l'ambasciata americana e l'elicottero militare nepalese arriva, precipita per un po' e poi riprende il volo.














mercoledì 23 settembre 2015

Heart of a Dog, viaggio tra le nuvole con Laurie Anderson


Mariuccia Ciotta



Artista totale, Laurie Anderson disegna lo schermo con musica, poesie, “frasi celebri”, ritagli di sogni, il ricordo dell'amato Lou Reed, appena inquadrato ma presente, in Heart of a Dog (concorso), che guida il viaggio nell'aldiqua insieme allo spirito di David Foster Wallace, “Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi”.

Icona dell'avanguardia americana, ha incrociato la strada di Burroughs e di Wenders, di Brian Eno e di Glass, è salita in cima alla classifica con O Superman, ha esposto le sue opere e se stessa, e a quasi trent'anni dal concert film Home of the Brave firma la regia di questa opera prismatica in viaggio ai confini di vita e morte, in compagnia non solo di Wittgenstein e di Kiekegaard, ma soprattutto di Lolabelle, la sua cagnetta, un alter ego speciale visto che ha imparato a suonare il piano, a dipingere e a plasmare sandali di ceramica per amici a quattro zampe.

La macchina da presa striscia ad altezza di muso ansimante o guarda in su verso i rapaci che mimano l'attacco alle Twin Towers e si avventano su Lolabelle, doppio del cane senziente di Godard. Adieu au langage. E al linguaggio è interessata Laurie Anderson, che ama soprattutto raccontare storie e lo fa con materiali solidi e vaporosi, fotografie di sua madre, rapporto difficile, e dei fratellini gemelli scampati per un soffio al gorgo di un lago ghiacciato dove la giovane pestifera Laurie li sprofondò con tutta la carrozzella, per sbaglio, ma sempre per la voglia di “mettersi in mostra”. Desiderio esibizionista che confessa quando racconta di come si spezzò la spina dorsale cadendo sul bordo della piscina nel tentativo di esibirsi in un tuffo acrobatico.

Il viaggio di 75 minuti è pieno di digressioni sulla via tracciata dal suo cane, che capisce 500 parole, ed è in collegamento con un'altra dimensione, virata sui toni del blu, la zona dopo la morte chiamata dai monaci tibetani il Bardo, 49 giorni di attesa prima che l'anima come la neve dell'infanzia si sciolga. L'anima di Lolabelle va in ricognizione, la fede buddista di Laurie è assoluta, per comunicare al suo alias umano le forme e i colori del paradiso, là dove Lou si è disteso su un prato tutto d'oro, un quadro di Goya, il preferito, che trova il suo punctum nella testa di un cagnolino curioso.

Delirio onirico, è come precipitare nella tela dei pensieri di Laurie Anderson, voce vibrante e violino, qualcosa di umoristico e divino, un film (presentato il 9 settembre alla Mostra di Venezia) che piacerà al presidente della giuria Alfonso Cuaròn, non lontano da lei, nello spazio sconfinato di Gravity.

Justine in Perù. "The Green Inferno". L'eco-horror politicamente corretto di Eli Roth.




Come era buono il mio francese, di Nelson Pereira dos Santos









Non per essere ultrà di Marco Mueller. ma questo bellissimo film horror che esce domani finalmente anche in Italia lo abbiamo recensito nel novembre del 2013 al Roma Film Festival. E' stato visto solo pochi mesi fa negli Stati Uniti e ora chissà come andrà in Italia. Sogno una sala cinematografica dove assieme ai film di laurie anderson si vedano nelle sale accanto i capolavori di Eli Roth o Sinister 2 che invece dobbiamo inseguire fuori raccordo per i capricci dei ras dell'esercizio e dei multiplex, incapaci di fare il loro lavoro. far profitti. questi mercanti cinefili guasti che inzeppano di prodotti medi(ocri) le sale i festival inutili e i premi dei festival inutili. Vadano a trieste, mille occhi, a fare un corso di rieducazione maoista al cinema.... no al cinema col bromuro! no alle sale parrocchaili travestite da cinema art e d'essai!




Roberto Silvestri

The Green Inferno di Eli Roth
Ma i cannibali esistono davvero? Certo. E a volte possono anche avere ragione. Parola di Hannibal the Cannibal o di Caetano Veloso, l'onnivoro musicista "antropofago" dal 1967 che scandalizzò i puristi carioca masticando rock, pop e chitarre elettriche yankee più che fado e Villa Lobos.


Esistono. E fin da quando Saturno divorò tutti i suoi figli, tranne Giove, come Goya immortalò... Ricordate I sopravvissuti delle Ande, il film di René Cardona jr.? Raccontava un episodio vero e agghiacciante: una squadra di rugby uruguayana, con parenti amici e allenatori al seguito, che, bloccata da un incidente aereo tra i ghiacci andini per 72 giorni prima che i soccorsi arrivassero, sopravvisse (in parte) divorandosi l'un l'altro, finché ne rimasero solo 16 su 45. 

Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato
Inoltre. Gli ebrei dello sperduto passato non accusavano forse (se non altro per ritorsione) i cristiani di cannibalismo sacro? E cannibali non sono stati definiti gli irlandesi dagli inglesi e i francesi dai tedeschi e i tedeschi da Walt Disney (Cappuccetto rosso)?  E certe forme altrettanto sacre di libagione di parti dei corpi nemici sconfitti in battaglia non fanno forse parte delle migliori antologie etno-antropologiche asiatico-oceaniche? 

Chi si considera civile dà del cannibale all'incivile. Come Herzog a Bokassa. Ma la nostra letteratura cannibale si è auto definita incivile proprio per additare pericolosi movimenti cancerogeni interni alle istituzioni culturali... I 'duemila maniaci' sudisti divorerebbero volentieri, ancora oggi, ogni passante nordista, lo abbiamo visto in un classico splatter di H.G.Lewis.  
Il regista e attore Eli Roth

Però. Un mito del documentarismo moderno, il "Roger Moore di Phnom Penh", il filmaker cambogiano Rithy Pahn, non ha forse affermato di aver visto con i suoi occhi due bambini assassinati dai khmer rossi che ne avrebbero poi divorato la cistifellea (essiccata al sole pare curi qualunque malattia)? O Rithy Panh era stato ipnotizzato dei discorsi infiammati del dittatore filoamericano Lon Nol che, antenato di Berlusconi, dipingeva Pol Pot e compagni come gli eredi degli yeak, gli orchi famelici delle fiabe cambogiane? Basta non accennare anche qui ai 13 aviatori italiani cottimangiati a Kivu nel 1960, quando il Congo non era più belga, perché se no entriamo nella pura leggenda mediatica metropolitana e nel capitolo giuridico 'razzismo e circonvenzione di incapaci'...
Eli Roth in conferenza stampa al festival di roma

Ma ci sono altri cannibali che hanno sempre ragione, ci dice - fiabe dei Grimm a parte - un film colto, che mastica (è il caso di dirlo) molto bene non solo Tarantino e Gloria Guida, Deodato e Edwige Fenech, ma anche il tropicalismo e Oswald de Andrade.
Sul set di The Green Inferno

Sono quelli della foresta amazzonica. I Wari, per esempio. E altre tribù lì attorno. Che, dice la storia scritta dai vincitori, si difesero banchettando con le carni e le interiora di  conquistadores spagnoli e missionari cattolici stracotti per cercare forse di impadronirsi, metabolizzandolo, del sacro segreto di quella tecnologia sterminatrice. Non dimentichiamo mai che siamo nei territori sacri a Ginsberg e Burroughs, dove gli alcaloidi fanno brutti scherzi. Nelle giungle piene di funghetti allucinogeni. Che provocano straordinari disturbi di percezione - senso alterato del tempo, allucinazioni visive, esperienze mistiche ed anche sensazioni trascendentali - che smembrano la funzione dell'ego. Diversamente dai barbiturici, nessun allucinogeno, però, deprime le funzioni del cervello, se si è ben assistiti...
Lorenza Izzo, la star del film The Green Inferno

Combattenti nativi molto poco nazionalisti, pronti per esempio, anche se pochi, e sopravvissuti solo nascondendosi nella foresta nera, ad allearsi con gli sciamani neri dell'Africa, questi nativi di nulla vestiti ma riccamente adornati, ed esperti biochimici che nel corso dei tempi hanno isolato soltanto 120 specie di allucinogeni da circa 600.000 specie di piante, sono i veri  eroi del modernismo brasiliano degli anni venti del XX secolo.

Di quella corrente culturale rivoluzionaria e soprattutto bahiana di lingua portoghese detta "antropofaga" appunto, che in odio ai portoghesi (navigatori certo, ma così incestuosamente chiusi, malinconici, mistici e rachitici) fece del meticciato, della trance, della possessione, della bastardaggine, della contaminazione corporale e mitologica, del viaggio interiore drastico, il fulcro sexy della propria festosa identità.
Lorenza Izzo

Non a caso Nelson Pereira Dos Santos, il padre del 'cinema novo' dedicò nel 1971 agli indios del Brasile e delle Amazzoni in rivolta, in ricordo del pirata francese Francesco l'Olonese, cotto e mangiato nel 1671 dai nativi, il film Come era buono il mio francese (1971). Senza aver visto il quale forse Roth non sarà compreso appieno. Soprattutto nella cena del banchetto, l'unica davvero ben inquadrata, degna dell'unico african-american della spedizione....
Cannibal Holocaust

Fuori concorso al filmfestival di Roma, dopo aver viaggiato con successo da Toronto a Rio de Janeiro e infine nel sacrario splatter di Sitges, arriva, sparato in faccia al pubblico come un colpo di cannone, lo splendente e demenziale low budget The Green Inferno, omaggio di Eli Roth (dopo Cabin Fever e Hostel 2) al suo maestro Ruggero Deodato e a Cannibal Holocaust (1980), gioiello del filone antropofagico, prezioso comparto del mega-genere horror all'italiana. Se ci sono imperfezioni narrative o ritmiche, se si trovano in questo inferno verde alcuni stereotipi iconografici facili facili (il nativo tutto dipinto di rosso ovviamente esiste, ma qui più che ai pellirossa dei western classici si ispira ad Arraphao), scene più che demenziali proprio esplicitamente dementi (quando si ha a che fare coi fischietti flautati e con la droga leggera, per esempio, e in piena area huasca) non si tratta di errori o di perdita di tensione, ma di realistico approccio alla matrice originaria, al film cannibale all'italiana, ai Cannibal ferox con le loro tante imperfezioni fertili. E che esigevano, dato il basso costo, velocità di approccio e qualche dettaglio secondario grossolano, buttato via....Serietà mitologica ma grossolanità filologica. Prendiamo, per esempio, alcune scene di nudo integrale con tortura interrotta, e poi vediamo la ragazza vittima del sacrificio non consumato scappar via con le mutandine addosso....
Ariel Levy in The Green Inferno

Tra lo scandalo di molti, Cannibal Holocaust, film lucido e violentissimo, e politicamente più che corretto come questo (soprattutto nell'accusare di ipocrisia criminale i mass media occidentali, che sono i veri selvaggi della contemporaneità) è stato almeno risarcito artisticamente con una proiezione trionfale alla Mostra di Venezia del 2004, che ha consacrato Ruggero Deodato, ovvero Mister Cannibale, come "Re del cinema Bis". Altro che quel buonista a nulla liberale di Jacopetti.

Profetico sismografo di orrori crescenti - proprio in quel decennio la coppia Reagan-Bush avrebbe decuplicato con non-chalance (rispetto ai già gloriosi genocidi passato colonial-imperialisti del passato) in centro e sud America (costringendo perfino un presidente Usa, Clinton, a chiedere poi umilmente scusa per i troppi campesinos, suore, sindacalisti, bambini, donne, studenti, vecchi sgozzati in quantità industriale da militari e paramilitari da Washington addestrati e pagati, per aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale Usa) - Cannibal Holocaust (che non a caso finiva con un indigesto banchetto indio-brasiliano a base di Mark Williams, ovvero del futuro deputato Luca Barbareschi)  viene ben 'divorato' e perfettamente digerito dal cineasta 42enne di Newton (membro del cerchio magico di Tarantino), mago moderno dello splatter, che si definisce 'psicolpatico a intermittenza' (solo quando gira), che ne ha afferato, a fondo, il cuore, gli arti, il sistema circolatorio e nervoso.

Così come il cinema postmoderno sempre più si illumina di storia, politica, attualità, ecco che anche l'horror più consapevole si sta iperpoliticizzando in maniera vistosa. Roth ha anche prodotto un film ispirato alla setta del reverendo Jones e al suicidio collettivo in Guyana). Segno di crisi o di slabbramenti di un genere che è vitale quando si inebria soprattutto di allusioni, di sottotracce, di decriptazioni....Ai fan settari del genere questo film deve dispiacere non poco, anche perchè le musiche di Manuel Riveiro spostano la testa verso il genere avventuroso più light.Però non dimentichiamo che esistono gli horror normali e gli horror da combattimento doppiamente politico, interiormente e esternamente. Nel senso che i film festival 'arty' più sofisticati se ne impadroniscono da qualche anno. La Berlinale ha conquistato l'agghiacciante, molto più che mockumentary, Act of Killing di Joshua Oppenheimer. Alberto Barbera ha preteso di avere in squadra alla mostra di Venezia Wolf Creek 2, il sequel-horror aussie di Greg Mclean; e così Marco Mueller ha risposto con questo sublime, anzi squisito (non dimentichiamo che in Brasile questo aggettivo significa 'disgustoso') The green Inferno che ha abbellito il cartellone del festival di Roma. Cannes 2013 ha abbassato un po' il quoziente gore del cineasta giapponese, ma ha messo addirittura in competizione un Miike Takashi, Shield of straw...

Girato a Manhattan, nella prima parte molto soft, e poi, via aereo normale a Santiago del Cile e poi, via aereo da turismo, quello che cade sempre, nei dintorni amazzonici e fluviali di Tarapoto (Perù), nella giungla e nei villaggi sperduti in cui totem ossei e cranici si fanno sempre più sinistri e impressionanti, le immagini gore più insostenibili e i tabù crollano uno dopo l'altro,  il film, scritto da Roth assieme ai cileni  Guillermo Amoedo e Nicolas Lopez - lo scatenato trio di After Shock si ricompone, e non dimentichiamo che il duo di Santiago è appassionato adepto di Umberto Lenzi - racconta la spedizione politico-mediatica di una quindicina di giovani e giulivi studenti e studentesse americane che vorrebbero sentirsi a posto con la coscienza e quasi militanti alla Greenpeace ma scoprono via via di essere pedine sciocche in mano proprio ai loro più acerrimi nemici. 

Tra di essi Justine (Lorenza Izzo) - un nome che è già tutto un programma per i più sadici cultore del genere - la figlia di un legale Usa dell'Onu, molto scettico sull'impresa congegnata, una compagna di stanza finto apatica, anzi ebrea militante (è Sky Ferreira), che essendo ben consapevole di cosa significa essere oggetto di persecuzione ostinata e continuata, si tira subito fuori dalla partita, e un leaderino, Alejandro (Ariel Levy) descritto come l'idealista prepotente, un capopolo antipatico e settario, anzi proprio stronzo, capace però di conquistare il cuore della neofita eco-adepta con la tecnica universale dell'umiliazione pubblica. Scopriranno che quella tecnica sadiana è ben più applicata nei villaggi della foresta impenetrabile. Maestri di tutto.

Nel frattempo i ragazzi partono entusiasti dal campus universitario per fermare (cellulari e telecamere in mano, il mitra della diretta, e poi, travestiti da operai, in tute gialle, per non dare nell'occhio, incatenandosi agli alberi) la distruzione di una parte di foresta pluviale e impedire la relativa cacciata di una tribù di nativi da parte della solita mega corporation da boicottare. 

Come era buono il mio francese di Nelson Pereira dos Santos
Ovvio che questi rampolli ingenui della borghesia ben pasciuta di Manhattan sono facilmente manovrati da un'altra mega corporation più avida della prima e che vorrebbe impadronirsi del business cacciando gli avversari, linciandoli via massmedia. Il sentiero è luminoso per i neoliberisti. E così il Perù rischia di diventare la tomba inusuale e imprevista di tutta la bella compagnia, già falcidiata dall'atterraggio aereo di fortuna nella giungla, se non fosse per una genialoide trovata da nerd che ne salverà almeno due. 


Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato
Petrini, slow food, Terra madre e tutto il resto ci avevano insegnato a diffidare, da decenni, dei movimenti integralisti pro-nativi non direttamente gestiti dalle comunità native. E il film socializza correttamente proprio questo principio politico. E avverte. "Non c'è più nessuno al mondo che non gridi Salviamo l'Amazzonia. Già, ma per molti vuol dire salvare un superfiltro planetario per l'inquinamento prodotto dalle proprie Ilva e dalle proprie automobili". 

Ed ecco che in questo intendersi comune Eli Roth si allea con Rossana Rossanda e Ignacy Sachs (vedi l'intervista in Quando si pensava in grande, Einaudi)  e si intende al volo con Lula e Delma. Che abbattendo parte della foresta amazzonica hanno salvato la vita di 40 milioni di brasiliani poveri e sottonutriti. Un conto matematico che annoierà a morte la Banca Mondiale, trovando la cosa assolutamente disinteressante per quanto riguarda lo schema crescita/profitto. 

Come era buono il mio francese di Nelson Pereira Dos Santos
Furbo il finale dell'eco-horror, poi, che serve non solo ad anticipare un secondo capitolo (che il grongo Roth non dirigerà, Lopez o Amoedo sì) ma per chiudere il cerchio etico e spiegare al mondo che i veri cannibali non sono quelli che divorano nelle foreste sperdute la carne umana in gloria del nemico o di chi è vestito con le tute gialle del nemico, ma quelli civilissimi e incravattati che della carne umana (e pure bovina) se ne fregano, ne fanno macelleria industriale e - in modo totalitario e globalizzato - scempio continuo e ripetuto. Superprofitti. Non fermandosi mai di fronte a nulla. A livello di lucidità politica siamo dalle parti degli eco-horror comici di Lloyd Kaufman e della Troma.

Deborah Young di Hollywood reporter, che il film ha poco gradito, si chiedeva con ironia, dal festival Toronto, dove il film è passato a Mezzanotte, se gli indios del film (che assicurano i produttori mai avevano visto un film) fossero almeno stati pagati a tariffa sindacale. Ma è la delocalizzazione, bellezza! Si gira in Cile e Perù per risparmiare e sbefeggiare le major. Però pare che le comparse native abbiano accettato di recitare e far parte del gioco solo dopo aver visto, e molto gustato, Cannibal Holocaust. E, come si sa, i cinefili raffinati non badano certo al dollaro.  

A questo punto non possiamo non riportare alcuni passi dal "Manifesto Antropofagico" del poeta brasiano modernista e antiimperialista Oswald de Andrade, scritto nel 1928 (ripreso dalle neoavanguardie degli anni 60 e dai cinenovisti come Joaquim Pedro de Andrade e Glauber Rocha) e che iniziava così: 


Solo l'Antropofagia ci unisce. Socialmente. Economicamente. Filosoficamente.
Sola legge del mondo. Espressione mascherata di tutti gli individualismi, di tutti i collettivismi. Di tutte le religioni. Di tutti i trattati di pace.
Tupy or not tupy, that is the question.



e prosegue: 

Quello che ostacolava la verità era l'abbigliamento, l'impermeabile tra il mondo interiore e il mondo esterno. La reazione contro l'uomo vestito. Il cinema americano informerà (...)

Vogliamo la Rivoluzione Caraibica. Più grande della Rivoluzione Francese. L’unione di tutte le ribellioni vittoriose rivolte all’uomo. Senza di noi l’Europa non avrebbe neanche la sia misera dichiarazione dei diritti dell’uomo. (...)


Dell’equazione io parte del Cosmo all’assioma Cosmo parte dell’io. Sussistenza. Conoscenza. Antropofagia.

Non abbiamo avuto la speculazione. Ma avevamo la divinazione. Avevamo Politica che è la scienza della distribuzione. E un sistema social-planetario.
Le migrazioni. La fuga dagli stati noiosi. Contro le sclerosi urbane. Contro i Conservatori e il tedio speculativo.


La bassa antropofagia agglomerata nei peccati del catechismo – l'invidia, l'usura, la calunnia, l'omicidio. Peste di cosiddetti popoli colti e cristianizzati, è contro di essa che stiamo agendo. Antropofagi.
"Antropofagia. Assorbimento del nemico sacro. Per trasformarlo in totem".










  








mercoledì 16 settembre 2015

Tutti pazzi per la Pixar, "Inside Out"





Mariuccia Ciotta

CANNES



Tutti pazzi per la Pixar, applaudita a Cannes sui titoli di testa di Inside Out (fuori concorso) e, come al solito, qualche “buu” all'arrivo del logo Disney, come se adesso non fossero la stessa company, diretta da John Lasseter. Dimenticata la matrice creativa della major di Mickey Mouse, si applaude anche in Italia dove il film è appena uscito, sempre ai film d'animazione dell'ex Studio di Toy Story. Dalla sala Lumière, zeppa di pubblico (la stampa relegata agli angoli) che è venuta giù per il giubilo collettivo quando in coda sono partite le gag extra destinate agli adulti fino alle estasiate critiche dei nostri giornali oggi. Ma.

Dirige Peter Docter, il geniale spilungone di Up (Oscar), co-sceneggiatore, alle prese qui con il “quartier cerebrale” di una bambina, Riley, 11 anni, dove si annidano le cinque emozioni primarie: la gioia, la tristezza, il disgusto, la paura, la collera, in gara per il bene della bambina, e rappresentate da altrettanti personaggi. La monella dalla zazzera blu elargisce felicità, quella rotondetta e occhialuta malinconia, la verde è schifata dai broccoli, un ometto dagli occhi a palla e il naso lungo vede pericoli dappertutto e un botolo rosso s'incendia di rabbia se Riley, giocatrice di hockey su ghiaccio, manca la rete.

Il film corre sul doppio canale dell'inside e dell'out in un continuo andirivieni, una struttura a specchio, e se il mondo reale è disegnato con verosimiglianza morbida e antropomorfa, effetto Final Fantasy, i cinque manovratori mentali hanno l'aspetto di pupazzi acrilici, tutti avvolti in pixel lanuginosi, forme elementari che non tengono il confronto con i bislacchi alieni di Monster & Co, dal quale Docter (il film è suo) trae ispirazione. E che entravano anche loro nell'inconscio infantile con l'intento di spaventare i piccoli addormentati in un allenamento estremo per “incontrare e conoscere la paura”. Inside Out al contrario detta le regole del vivere pacificati, e rimette in campo la famiglia, come nel temibile Gli incredibili, violazione massima delle favole, dove lo status è sempre quello dell'”orfano”, il bambino solo di fronte a mostri, streghe, orchi... Il fatto è che non siamo in una favola, ma a San Francisco, dove i due teneri genitori si sono trasferiti, senza tener conto dei sentimenti della figlia. Riley è nata in Minnesota, e lì ha i suoi amici, il suo laghetto di pattinaggio, i suoi ricordi. Il Golden Gate non la affascina e nemmeno le salite vertiginose, né la famosa strada che precipita tra le aiuole, e quindi fa il broncio, risponde male a papà e mamma, medita la fuga. Ed ecco i magnifici cinque all'opera per bilanciare i furori adolescenziali.

Costa meno in termini produttivi creare un mondo “falso” dentro un film d'animazione che già lo è (accade in La principessa e il ranocchio), e abbandonare la cura e i dettagli del “reale”, così addio alla città della Beat Generation, certo più magica della mente Luna Park di Riley, un labirinto con grandi scaffalature che contengono palline lucenti e colorate, i ricordi della bambina, e dove alla consolle si alternato i cinque personaggi, affannati in grandi manovre per strapparle un sorriso o farla intristire al punto giusto da impedirle la ribellione.

Il panorama fantastico dell'ultramondo è senza meraviglie, un elefante rosa di stoffa, “l'amico immaginario”, è sotto la quota accettabile di comicità, le “isole” intitolate alla famiglia, all'onestà, all'amicizia, etc sono grigie accozzaglie di simboli, niente a che vedere con l'Isola del jazz e l'Isola della melodia di epoca Silly Simphonies. La riduzione a forme cubiste di miss Gioia e miss Tristezza, che si sono perse nei meandri del “quartier cerebrale” e hanno lasciato la bambina catatonica, sono pallide copie della fantasia onirica dei classici. Sembra che Inside Out viva di rendita (per esempio, del corto disneyano sullo scontro tra razionale e irrazionale nella testa del protagonista, Reason and Emotion, 1943) e di un budget modesto, mascherato con il fracasso ripetitivo del campo controcampo.

Certo, Gioia è una ragazzina punk carina, e la sequenza delle evoluzioni sui pattini in parallelo con la bambina in “carne e ossa” è incantevole. Peter Docter ce la mette tutta ma la nefasta influenza di film che strizzano l'occhio ai cosiddetti maggiorenni (quelli che mancano di luccicanza) lo conduce verso la mitragliata di “quadretti” che infestano Inside Out. Quanto fa ridere la replica delle “cinque emozioni” in formato adulto, con latin-lover brasiliano abitante del cervello materno, o l'assenza di pulsioni desideranti in quello di un gatto.

La Pixar sarà meglio che si rivolga alla lampada Luxo e faccia appello alle sue di emozioni.


sabato 12 settembre 2015

I premi. W il nuovo Venezuela (nonostante tutto)

Roberto Silvestri

Venezia

Ha stravinto il cinema dell'America Latina. Con due bei drammi grondanti sangue e vita nuda, come in un affresco di Masolino, striate da profonde metafore storico politiche, ma sottopelle, con una capacità di fabbricare suspense aritmica, estranea a ogni canone di genere. Giuria, ben fatto. Anche se il Rabin di Gitai durerà più a lungo nei ricordi. Ma quel che inebria i festival di categoria super A sono proprio le commedie e le tragedia, fatte strane, diversamente, i film civili ma con un certo non so che.  Come il film turco che ha vinto il premio speciale della giuria. Imperfetto, dark, affilatissimo.
E a film così sono stati assegnati tutti gli altri premi: a un cartone animato atipico, a un melodramma sessualmente capovolto come quello di Gaudino (mattatrice Valeria Golino, ai livelli delle sue stravaganze con Pee Wee e della sua prima coppa Volpi, che Citto Maselli le cucì addosso), a una commedia che consacra Fabrice Luchini, sicuramente l'unico al mondo che riesce a ricreare in tutte le sue sfumature e contraddizioni, perfettamente "Fabrice Luchini", che incarna da 30 anni - con un sarcasmo al vetriolo identico a quello dell'attrice che ha presentato la cerimonia di chiusura -  tutta la crudeltà e la misantropia, il calore e la sensibilità, il cinismo bonario della civiltà euro-latina. Il suo giudice è un grande mostro.
Insomma Venezia 72 ha rispettato il progetto. Indica una "seconda via" per riempire le sale commerciali di opere competitive con il cinema mainstream e di genere locale o con Hollywood, e non con film troppo difficili e fuori generi (i documentari rigorosi, per esempio, o i film esplicitamente da galleria d'arte, o gli home movie, per quanto ci scortichino vivi  come quello di Laurie Anderson).
Dunque. Leone d'oro a Da Lontano di Lorenzo Vigas, venezuelano, 48 anni, documentarista e cortista scoperto a Cannes, Leone d'argento a Pablo Trapero che invece fu consacrato a Venezia, Settimana della Critica (circa venti anni fa, quando Silvana Silvestri scovò Mondo Grua che vinse). E per la prima volta scopriamo l'esistenza di un cinema venezuelano. Mai approdato a Venezia e, in fondo, neanche a Cannes (se non come produttore). Noi credevamo che il cinema di Caracas si fermasse a Franco Rubartelli.... Merito di Chavez che ha sviluppato finalmente una cinematografia nazionale proibita dalle dittature liberali, proprio come Castro fece con quella cubana? Merito di un film aspro, ma non troppo, pasoliniano, ma non troppo, che in fondo ci spiega sotto traccia (il racconto si focalizza su un uomo traumatizzato da violenze domestiche subite in gioventù che cerca di ritrovare faticosamente, senza riuscirci, una strada di redenzione e d'amore) come il Venezuela ha cercato di distruggere i suoi figli, oggi ribelli; come la borghesia corrotta e servile ha impedito per decenni con la forza e con la repressione militare di far vivere decentemente e dinamizzare tutto il paese. Di politici che hanno istigato alla guerriglia urbana e rurale, ottimo escamotage per allargare i profitti. E ci avvicina a un paese vivo che se oggi si ribella, anche maldestramente, è anche per colpa di antichi traumi che ne hanno deformato a lungo la psiche collettiva. La presenza del direttore della fotografia dei film di Pablo Larrein (Tony Manero in particolare) conferma la volontà di fare di questo film un manifesto di nuovo cinema latinoamericano: "E' vero, abbiamo molti problemi nel nostro paese . ha detto il regista ricevendo il leone d'oro -  ma stiamo cercando di risolverli. E' vero che il Venezuela è anche infelice ma è un paese meraviglioso". Ovvio che solo un cineasta latino americano poteva affascinare i suoi colleghi spiegando il perché delle loro good vibrations vedendo il film. Un cineasta messicano, emigrante di lusso a Los Angeles, dove è arrivato con le sue scarpe, Alfonso Cuaron che deve avere ipnotizzato i suoi colleghi della giuria. Quando una personalità forte non ha rivali il verdetto accontenta quasi tutti. Chi meglio di lui poteva spiegare le complesse metafore che si nascondono dentro un film su problemi e tragedie del sottosviluppo sudamericano? 
Per il secondo anno consecutivo abbiamo la sensazione di non aver visto i due migliori film del festival. Il palinsesto della Mostra di Venezia deve essere organizzato proprio male. E qualche errore nella lista dei film in gara e dei film fuori gara è stato commesso.
I film della sezione Orizzonti, infatti - affidati poi a una supergiuria guidata da Jonathan Demme e Charles Burnett, ovvero i migliori cineasti statunitensi della generazione anni 70 e della Black Renaissence californiana - sono inseriti in modo tale nel programma che se anche si vedono tre film al giorno e ci si scrive sopra è difficile imbattersi in Free in deed (Libero di agire) il film super indie e a basso costo diretto dal neozelandese Jake Mahaffy (e coprodotto dagli Usa perché Mahaffy ha vinto premi al Sundance e al Sxsw, il festival di Austin Texas che sta crescendo di interesse e di importanza di anno in anno) e in The childood of a leader , di un altro gioiellino del Sundance, il newyorkese Brady Corbet, 27 anni. A Cannes molti film del Certain Regard, la sezione qui più o meno fotocopiata, sono inseriti in maniera da essere visti. Per esempio la proiezione stampa della mattina è unica. Certo, è più faticoso per i critici (e la sala è zeppa, mentre a Venenzia sembra che sia semi deserta perchè è raddoppiata subito dopo). La qualità di Orizzonti è confermata da un film che i cinefili certo hanno visto perché il brasiliano Gabriel Mascaro, qui premio speciale a conferma della superiorità delle immagini latino-americano a Venenzia 72, aveva vinto l'anno scorso il festival di Locarno. Il suo atteso (ma non dagli esperti di Barbera) Boi Neon conferma non solo la qualità di narratore orginale e antropologicamente ben radicato dentro il road movie che ha originato e scatenato (l'ambiente è quello dei cowboys dei dintorni di Recife e dei rodei delle Vaqueiadas) ma anche la definitiva metabolizzazione del cinema novo che non è più il codice da evitare e da cancellare, il cinema "di papà", per quanto pazzoide, di cui fare a meno se si vuole crescere con le propie gambe, ma un serbatoio di immensa suggestioni e passioni etiche, estetiche e erotiche da repuperare, e maneggiare ormai senza alcuna soggezione. 

Ecco i premi di Venezia 72

Premi Ufficiali della 72. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica


Da Lontano (Desde allà) di Lorenzo Vigas
VENEZIA 72 La Giuria di Venezia 72, presieduta da Alfonso Cuarón e composta da Lynne Ramsay, Diane Kruger, Elizabeth Banks Emmanuel Carrère, Nuri Bilge Ceylan, Pawel Pawlikowski, Francesco Munzi, Hou Hsiao-hsien dopo aver visionato tutti i 21 film in concorso, ha deciso di assegnare i seguenti premi:

LEONE D’ORO per il miglior film a: DESDE ALLÁ (FROM AFAR) di Lorenzo Vigas (Venezuela, Messico)

LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a: Pablo Trapero per il film EL CLAN (THE CLAN) (Argentina, Spagna)

GRAN PREMIO DELLA GIURIA a: ANOMALISA di Charlie Kaufman, Duke Johnson (Stati Uniti)

COPPA VOLPI per la migliore interpretazione femminile a: Valeria Golino nel film PER AMOR VOSTRO di Giuseppe Gaudino (Italia, Francia)

COPPA VOLPI per la migliore interpretazione maschile a: Fabrice Luchini nel film L’HERMINE (COURTED) di Christian Vincent (Francia)

PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore o attrice emergente a: Abraham Attah nel film BEASTS OF NO NATION di Cary Joji Fukunaga (Stati Uniti)

PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a: Christian Vincent per il film L’HERMINE (COURTED) di Christian Vincent (Francia)

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a: ABLUKA (FRENZY) di Emin Alper (Turchia, Francia,
Qatar)

LEONE DEL FUTURO - PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA “LUIGI DE LAURENTIIS” La Giuria Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis” della 72. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, presieduta da Saverio Costanzo e composta da Roger Garcia, Natacha Laurent, Charles Burnett, Daniela Michel assegna

il: LEONE DEL FUTURO - PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA “LUIGI DE LAURENTIIS” a: THE CHILDHOOD OF A LEADER di Brady Corbet (Regno Unito, Ungheria) ORIZZONTI nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.

PREMI ORIZZONTI La Giuria Orizzonti della 72. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, presieduta da Jonathan Demme e composta da Alix Delaporte, Paz Vega, Fruit Chan, Anita Caprioli dopo aver visionato i 19 lungometraggi in concorso e i 14 cortometraggi in concorso, assegna:

il PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM a: FREE IN DEED di Jake Mahaffy (Stati Uniti, Nuova Zelanda)

il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE REGIA a: Brady Corbet per THE CHILDHOOD OF A LEADER (Regno Unito, Ungheria)

il PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI a: BOI NEON (NEON BULL) di Gabriel Mascaro (Brasile, Uruguay, Paesi Bassi)

il PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIOR INTERPRETAZIONE MASCHILE O FEMMINILE a: Dominique Leborne nel film TEMPÊTE (LAND LEGS) di Samuel Collardey (Francia)

PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a: BELLADONNA di Dubravka Turić (Croazia)

il VENICE SHORT FILM NOMINATION FOR THE EUROPEAN FILM AWARDS 2015 a: E.T.E.R.N.I.T. di Giovanni Aloi (Francia) PREMI VENEZIA CLASSICI la Giuria presieduta da Francesco Patierno e composta da studenti di cinema provenienti da diverse Università italiane: 25 laureandi in Storia del Cinema indicati dai docenti di 12 DAMS e della veneziana Ca’ Foscari, ha deciso di assegnare i seguenti premi:

il PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR DOCUMENTARIO SUL CINEMA a: THE 1.000 EYES OF DR. MADDIN di Yves Montmayeur (Francia)

il PREMIO VENEZIA CLASSICI PER IL MIGLIOR FILM RESTAURATO a: SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA di Pier Paolo Pasolini (1975, Italia, Francia)

LEONE D’ORO ALLA CARRIERA 2015 a: Bertrand Tavernier

JAEGER-LECOULTRE GLORY TO THE FILMMAKER AWARD 2015 a: Brian De Palma

PERSOL TRIBUTE TO VISIONARY TALENT AWARD 2015 a: Jonathan Demme PREMIO

L’ORÉAL PARIS PER IL CINEMA a: Valeria Bilello