lunedì 30 settembre 2013

La "profezia" fantastica di Italo Calvino. Una rassegna di film a Roma. Al cinema Trevi (1-5 ottobre)

Italo Calvino è morto improvvisamente il 20 settembre 1985, nello stesso giorno del terribile terremoto in Messico, proprio lui che era nato - da sanremese emigrante - lì vicino, a Cuba, mamma botanica e papà agronomo. Inoltre stava proprio per recarsi in Messico per sposarsi. Ma la cattolica Mexico City non avrebbe mai concesso l'ok alle nozze con una donna divorziata e dunque si era diretto verso la l'isola atlantica dell'amico Che Guevara...
Nel trentesimo anniversario della sua scomparsa ci saranno certo, da ora in poi, molte iniziative e manifestazioni per celebrarlo. In Italia e nel mondo (è stata dopo Dante Alighieri il più tradotto dei nostri narratori). Ma quest'anno, nel novantesimo della nascita, non sembra che la prassi intellettuale di Calvino sia molto ricordata. Anche se, recentemente, in due preziosi volumi, Vito Santoro, e prima ancora, nel 1990, Lorenzo Pellizzari si sono accostati a Calvino in maniera differente, partendo dal cinema per arrivare alla letteratura e alla saggistica e svelare il mistero di una scrittura unica, contaminata e multimediale ante litteram. 

Calvino sarà infatti ricordato prima di tutto come grande scrittore, di fiction e di non fiction, svezzato da Cesare Pavese e Elio Vittorini e traghettato nel pieno del boom economico, in una modernità a parte, al di là del Gruppo 63 e al di qua del neo-populismo pasoliniano, perché capace di arcaismi ancora più arditi. E non chiamatelo mai scrittore di favole. Ma anche. Come partigiano comunista che rischia non poche volte la pelle. Come manager dell'editoria, per i lunghi anni passati all'Einaudi, protagonista di una stagione aurea della nostra industria culturale prima che Mondadori la risucchiasse con metodi pare gangsteristici. Come giornalista, celebre per i suoi viaggi 'esotici' raccontati su Repubblica, diretta dal suo ex compagno di banco Eugenio Scalfari (meno partigiano di lui). Come profeta di una urbanistica a venire, ancora invisibile, indocile alle città invivibili che la speculazione edilizia democristiana ci impose, eppure ancora capace di trovare nello squallore più totale quell'angolo di delizie, perfino a Detroit o a Scampia. Come 'cantautore popolare' di lotta (fu tra gli animatori del movimento di risarcimento musical-popolare Cantacronache) e reinventore di Mozart. Come ex intellettuale impegnato nel Pci e ancor più impegnato quando lo lasciò (aveva cercato perfino di far iscrivere al partito dell' 'antitesi operaia' l'indocile Fruttero...), sempre capace di maneggiare le affilate armi della critica anche quando si considerava molto più dirompente e perfino più violenta e sanguinaria - e non era vero - la critica delle armi. Come fonte di ispirazione per architetti, pittori, scultori, fotografi, botanici, cartoonist...

Ma anche come spettatore di cinema, fanatico della Hollywood anni trenta e quaranta, cineclubista, critico e cineasta, a suo agio sia nel documentario che nella finzione, purché mai noiosi e drastici (Straub fece Pavese senza la sua autorizzazione), che esordì come penna del Cinema nuovo aristarchiano, come cronista dell'Unità di Torino (al fianco di Novelli e Crispino) spedito tra le mondine del vercellese set di Riso amaro di Beppe De Santis, di imprinting e cultura neorealista, proprio come neorealista fu il suo primo romanzo, una eredità in fondo in fondo mai veramente tradita. Il cinema fa molto bene alla letteratura. E viceversa. E forse con il passpartout del cinema neorealista anche certi segreti della sua scrittura saranno svelati.... 

Sia perché proprio a causa di quel 'neo' ogni, anche la più spericolate, variazioni di senso (e - Mario Mattoli aggiungerebbe - e di pesante ironia) è permessa, sia perché, come ricordava Roberto Rossellini, nessuno è riuscito ancora bene a definire a parole cosa fu il neorealismo, al di là di un desiderio collettivo di cambiamento sociale radicale, di uno stile di vita etico, della scoperta dello 'sguardo individuale', mai più embedded, in sintonia con il noir-realismo nordamericano di Chandler e Cain.

Per un momento, dal 1945 al 1948, il cinema italiano diventa essenziale, aspro, crudele, libero, aperto, horror, criminale, etico, senza orpelli né trombonate,  e mai moralista, il numero uno, proprio come il cinema hollywoodiano d'era rooseveltiana, anzi l'unico cinema dotato di 'grande struttura', che inventa un mondo, che apre ad altre 'dimensioni del mondo'. Poi sarà bene non avere più nulla a che vedere con Cinecittà impossibilitata perfino a lavare i propri panni sporchi.

Infatti poi, come scrive Lietta Tornabuoni, i suoi rapporti con il cinema italiano 'mainstream'  furono sempre piuttosto patafisici per un intellettuale 'potente' e mai drop-out come lui: 

«È uno degli scrittori che direttamente meno hanno contribuito al cinema italiano: qualche collaborazione a sceneggiature, qualche soggetto [...]. Ma è forse lo scrittore italiano che più ha anticipato nella propria opera l’immaginario, le fascinazioni, le tendenze del cinema internazionale contemporaneo: il mondo medievale rivissuto con ironia, l’universo magico ripetitivo e fatale della fiaba, le cosmogonie fantastico-scientifiche, le città del sogno tra Oriente visionario e megalopoli moderna, la narrativa come processo combinatorio di elementi preesistenti, la narrazione come forma compiuta che è possibile scomporre giocando col racconto come con gli scacchi».
Sarà stato l'internazionalismo di famiglia, l'orrore per la politica della bigotta dc di emarginazione del paese dal flusso vivo della cultura (esistenzialismo, beat generation, angry young man, be-bop,  nouvelle vague, nouveau roman, akzionismus austriaco, musica post dodecafonica...sono tutti movimenti peccaminosi), la presa di attenta distanza rispetto alle pratiche delle neoavanguardie letterarie (che pure pubblica su Einaudi) che stanno perdendo il gusto antico dell'intreccio narrativo, per sostituirlo con procedimenti formali urlati e complicati come gli assolo del free jazz, salvo poi ritrovarlo, recuperare la melodia, con il distacco e l'ironia snodabile del postmoderno (Umberto Eco lo teorizza adesso: il gruppo 63 si preparava già a In nome della rosa...). Gusto dell'intreccio e della melodia che invece Calvino (incapace di marciare a tempo) non perdette mai, salvo applicarlo a percorsi narrativi bastardi e multipli, complicarlo raccordandolo alle altre arti e alle scienze mutanti, ben al di là del romanzo, verso una prefigurazione sinestetica e transartistica del cinema e del digitale futuro...Ma fino al primo governo di centro sinistra, e ai socialisti al potere, fino al 1960 Calvino si tiene bene alla larga dalla commedia rosa e dai sub-generi provinciali dominanti, concedendosi poi a ben pochi registi 'a parte': Zac, Monicelli, Quilici, Bennati, Maselli, Di Carlo, Manfredi, Vanzi...
  
Narratore, saggista, critico, teorico, cosmonauta dell’immaginario, soggettista e sceneggiatore,
documentarista, intellettuale impegnato nella battaglia delle idee e “giocatore” negli apparati
culturali, punto di riferimento vitale per i cineasti del XXI secolo, gli esploratori della “verità nella
vita globalizzata”, tre anni dopo Bologna e l'omaggio che gli fece la Cineteca (e Fofi), dimenticandosi però i due film di Carlo Di Carlo (bolognese), Italo Calvino sarà al centro di una retropettiva cinematografica all'interno di una mostra in progress (In viaggio con Calvino) iniziata a Roma nel giugno scorso (all'Acquario).

Al cinema Trevi, dall'1 al 5 ottobre, verranno perciò scodellati, nel novantesimo anniversario della nascita, una ventina di film a soggetto “calviniani”, cartoon, corti, opere neo-post-realiste, e anche doc, doc industriali, o storici o geografici, pellicole ispirate ai suoi scritti, comprese alcune, come L'uomo fiammifero o Domani accadrà,  che hanno con Calvino un rapporto di scambio a distanza, diretto o obliquo. È il Calvino già polemista, che è in attesa del Sacro Gra che, parola di Gianfranco Rosi, proprio alle Città invisibili è ispirato. La rassegna è organizzata dall'IXCO (Istituto Italiano per la Cooperazione o.n.g.), dalla Casa dell’Architettura, dalla Cineteca Nazionale e dall'Archivio Nazionale Cinema d’Impresa. Non ci saranno purtroppo alcune perle calviniste: il lungometraggio  Palookaville di Alan Taylor (Usa, 1995) liberamente ispirato a Calvino tutto e in particolare al racconto breve "Furto in pasticceria" da Ultimo viene il corvo (da cui è tratta anche l'idea centrale di I soliti ignoti), L'avventura di un fotografo mediometraggio di Citto Maselli (1983) e Ti-koyo e il suo pescecane di Folco Quilici (1962) ispirato al romanzo di Clement Richter, e sceneggiato da Calvino, per problemi di reperimento o stato di conservazione delle copie.

La reperibilità you tube di  L'Italia vista dal cielo, e in particolare la nona puntata sulla Liguria (una ricognizione - molto poco lineare, in elicottero che è antropologica, geologica, storica, botanica, sociale e archeologica nello stesso tempo - della nostra regione morfologicamente più strana) di Folco Quilici, testo di Italo Calvino, del 1973, permetterà a chiunque, poi, a casa, di costruirsi una sua rassegna calvinista, perché negli ultimi anni sempre più cortisti, da tutto il mondo, hanno affrontato e diffuso in rete i testi del nostro scrittore, quelli più 'combinatori' e di scatenata reversibilità temporale, che hanno avuto una influenza postuma straordinaria e planetaria anche nel cinema fantascientifico ad alto budget e ipertecnologico (da Matrix ai fratelli Wachowsky, da Lynch a Cronenberg, da Niccol a Gilliam, da Ferrara a Greenaway). Basta ricordarne alcuni: Nancy King (Usa, 2006) con Solidarity, Yu-Hsiu Camille Chen con Conscience (Australia, 2010); Kevin Ruelle, con The false grandmother (Usa); Calvino e Dani con Zobeide (Usa, 2010), Ana Luisa Liguori con Amores Dificiles (Messico, 1983), Philippe Danzelot con L'aventure d'une baigneuse (Franca, 1991), Stelios Rogakos con Efprosopo katafygio (Grecia, 1990), Ergin Cavusoglu con Voyage of no return (Turchia) e Gabriel Bitar con  A Citade e o desejo (Brasile).... 


Oggi, a quasi 30 anni dalla morte dello scrittore più cinematografico e magico-fantastico del 900 una animatrice israeliana, Shulamit Seraty, non può esimersi dal trovare The distance from the moon, tratto da Le Cosmicomiche,  una perfetta metafora per raccontare Israele oggi, ipotizzando un pioneristico esodo, single magari, che tuttora attrae chi vuole cercare una terra (o una luna) promessa, senza dover per questo cacciare di casa chi vi abita. Il viaggio senza meta, quello nel quale il paesaggio mangia divora e annulla il viaggiatore, che non sarà più quello che era, che mette in moto un processo di mutazione irreversibile, insomma il road movie, è già, e prima del Sorpasso di Risi, nel dna di Calvino.

Lo sanno bene i documentaristi, Roberto Giannarelli e Damian Pettigrew, che stanno appassionandosi sempre più alla sua geografia on the road, e oltre, mentale e biologica, libera e etica, che scavalca i confini del pianeta e si fa stellare, preistorica, addirittura precellulare. 

Una geografia che parte da Cuba - un giardino che il Wwf oltre che l’Unesco, dovrebbe tutelare - con i suoi antenati ‘acquisiti’.  E poi va su e giù nell’America, non solo latina, con il suo cristianesimo ‘altro’, un pensiero unico che si vivifica di rivolta, rabbia, urla, occupy, anonymus (lo capiremo rivedendo il dimenticato e attualissimo America paese di dio). E in Giappone, paese che più riclicla parte della sua immensa tradizione culturale come missile spirituale di immensa potenza per disegnare un futuro non sciovinista (Miyazaki, per dire un nome)…

E torna indietro nel tempo, fin nella preistoria stellare e pre stellare, riletta in chiave scientifico-evoluzionista, quasi fosse già un gioco di neuroni-specchio a tracciare le peripezie del cambiamento, della metamorfosi, da atomo a pesce da dinosauro a scimmia a umano, con un Darwin che è contemporaneamente osservatore del soggetto indocile e ribelle, feroce e unico, però incapace di salto, di imporsi come il più forte, senza aggregare forze collettive che acquistano potenza solo nella reciproca assistenza. L'evoluzionismo non premia affatto il piu' forte single spietato, ma il general intellect della solidarietà....

Siamo sulle soglie di un liberalismo altro, ancora da inventare, e lo scienziato anarchico  Kropotkin, hobo libertario in Siberia, l'amico di Lenin, sarebbe qui molto utile da riutilizzare. E’ la sopravvivenza, bellezza. Al Centro Sperimentale di Roma da anni si studia la ‘parte visuale della fantasia’, estetica, non estetizzante. Nel senso più scientifico del termine. Quando si attivizzano tutti i sensi conosciuti e anche la sensuale sensibilità ‘ai confini della realtà’. E si cerca di portare a compimento un copione plausibile - non descrivere il pantano in cui viviamo, ma viaggiare per uscirne - tratto dal Barone Rampante. E’ un vecchio pallino di Giorgio Arlorio, l’insegnante di sceneggiatura…

Che probabilmente parte dal più agghiacciante shock visuale ispirato a Calvino, quel Visconte dimezzato (scritto nel 1952) messo in scena live nel 1964 da Gunter Brus, uno degli artisti, performer e cineasti austriaci più radicali dell'azionismo sessantottino, che trasformatosi in statua vivente gessosa, materica e spaccata in due da una riga dipinta di scuro, se ne andava per le strade di Vienna a rischio dell'arresto per offrirsi come capro espiatorio, quasi come un Pasolini sacrificale, incorporando dentro di se' la devastante zuffa di classe limitrofa, che stava pericolosamente slittando verso la fase armata della guerra civile. Che in Austria non sfociò mai nel terrorismo forse grazie anche a quella stirpe di artisti masochisti come Günter Brus che insieme a Otto Mühl, Hermann Nitsch e Rudolf Schwarzkogler, sfiorando la morte, seppero dire un grande sì alla vita. Calvino interpretato proprio alla perfezione come sacro rito, esorcismo politicamente corretto, profeta fantastico.       

Gianfranco Rosi, Leone d'oro con Il Sacro Gra ispirato alle Città invisibili di Calvino
Segnali di attualità della sua ‘patafisica’ e 'patalogica' visione delle immagini, indocili agli standard e contemporaneamente alla ricezione schermica subumana o sovrumana di tanti autori amati dalle nicchie o dal popolo, da Straub a Pasolini (di cui Calvino detestava Il vangelo secondo Matteo, trovandolo dilettantesco) fino al virtuosismo postmoderno di Lynch e von Trier, perché non basta smitizzare il mito del cinema. 

Lo spettatore medio ha un che di estremista quando esige semplicemente da un film l’estasi del piacere (Niccol, Gilliam, Ferrara, Cronenberg, i fratelli Wachowski…)…Eppure sono così pochi i film tratti dalle sue opere. Monicelli, Pino Zac, Alan Taylor, Carlo di Carlo, Citto Maselli, Giuseppe Bennati, Nino Manfredi, Daniele Luchetti, e in maniera solo lontanamente apologetica, il Gianni Romoli di Fantaghirò e il Folco Quilici di Tikoyo e il suo pescecane Ma, come ricorda Vito Santoro nel suo prezioso studio “Calvino e il cinema” furono soprattutto i racconti degli anni 50, quelli del periodo realista ad attirare l’attenzione. Oggi invece, senza neppure pensarci, sono più ‘calvinisti’ Michelangelo Frammartino, l’argentino Lisandro Alonso, l’americana Kelly Reichardt, il thailandese Apichatpong Weerasethakul e i registi dell’avventura senza bussola, del walking cinema, ma dell’antitesi, del ‘vagare alla cieca della storia d’amore’, della deambulazione labirintica da un punto all'altro, ma ad alto quoziente soggettivo. 

Zero in condotta nella ‘scuola dello sguardo’, perché l’obiettivo è riappropriarsi, altrimenti, al di là dell’occhio-mio-dio, dei significati storico-sociali dell’agire nel mondo. E’ critica pratica dell’economia politica del cinema. Fu non a caso insignificante per Calvino la seduzione esercitata da Cinecittà e da quel ‘cinema italiano semi artigianale più che poco industriale’ che stava sprofondando nell’abisso. E che lo aveva tenuto stranamente ai margini del ‘grande affare’. 

Calvino fu tra i pochi scrittori di successo internazionale estranei alle affollate botteghe dei costruttori di ‘commedie al vetriolo’ atte a massacrare i riti e i miti del boom, ‘crescita + disoccupazione in crescita’, avrebbe detto Mario Tronti.  Intimo, interno a tutte le discussioni e polemiche collegate al dibattito sul neorealismo e su come uscirne, visto che di palazzi crollati per i bombardamenti ormai non v’era più traccia, come critico prima di Cinema Nuovo poi dell’Unità è tra i primi a compiere un detour scandaloso. 

Che in Italia stesse cambiando la società, il costume, l’ambiente, l’uomo, il Calvino neorealista del ‘Sentiero dei nidi di ragno’ del 1947, se ne accorge, con crudeltà e sensibilità Qfwfq. Si esaurisce il linguaggio diretto, sostituito “da quell’amabile divertimento dell’intelligenza, che è l’ironia del dimezzamento, della sospensione, e della sottrazione del mondo” (Asor Rosa). “Noi guardiamo il mondo precipitando dalla tromba delle scale” aveva sintetizzato Calvino il saggista, attratto dalla “verità industriale”, cioè la verità della moderna società capitalistica”.  

Cinefilo appassionato, fu testimone del grande rinascimento etico dei nostri cineasti post fascisti, e poi fautore di un approccio al cinema come pensiero e macchina della ‘verità della vita’, piuttosto che come ‘realtà della vita’, usando una terminologia presa in prestito da Franco Fortini. E dunque schierato con chi utilizzava il laboratorio da scienziato pazzo per radiografare l’alienazione neocapitalistica, in una Italia ormai industrial-contadina (si vedano le interviste operaie di Marcovaldo, che è un apologo sullo scontro incontro tra campgna e città) che avrebbe però perso, con il crollo sospetto della Olivetti, la sua spinta propulsiva. Alcuni rottamarono il linguaggio, anticipando il ‘salto operaio della scocca’ e buttando all’aria tutto (grammatica, sintassi, istituzioni, parentele), tra risate e scherno. Fu la neoavanguardia del Gruppo 63. Altri scelsero il linguaggio cifrato e misterioso, ma non ermetico, solo transculturale. Più Raymond Queneau che Eugenio Montale.  Ed eccolo così al fianco di Orson Welles, di Antonioni, a volte, e di Fellini, quasi sempre.

sabato 28 settembre 2013

Ken Loach, lo Spirito del '45. Quello che Blair ha cancellato

di Roberto Silvestri

Democrazia e socialismo. Si possono, si devono coniugare? E come? Il capitalismo, corretto e controllato,  è possibile? O stiamo maneggiando concetti obsoleti, idee-forza depotenziatesi con il tempo, nell'era della globalizzazione come religione verticista e fondamentalista? Questo è il punctum del film The Spirit of '45, Lo spirito del '45, uscito il 15 marzo scorso in Gran Bretagna e il Italia il 10 settembre scorso.

Stiamo parlando di cose ammuffite, vecchie, che risalgono a quasi 70 anni fa? Bé. Sono i vecchi le super-star di oggi. Non solo Clint, ma anche Up!, il gerontofilo di Bruce La Bruce, il matusa Lincoln, il cartoon per solo anziani Rughe... Oggi - nonostante il balbettio urlato dei rottamatori, vecchio è (paradossalmente) bello. E questo film sarà anche una bella sfilata di meravigliosi e meravigliose ottuagenarie. Ma il concetto di bene comune è addirittura più che millenario, come ricorda il filosofo americano Michael Sandel in Reith Lectures 2009...

L'esperimento nordamericano di F.D. Roosevelt finì con la morte prematura del quattro volte presidente, nel 1945 (da allora rimosso dall'immaginario Usa con la scusa della caccia ai rossi: ma era lui il più odiato dalla destra). 

Le sue grandi campagne di spesa pubblica 'strutturale' e le nazionalizzazioni erano dirette al bene comune, pensate come controllo e fiancheggiamento, ma anche scavalcamento di mercato delle stessa mega corporation, i supereroi della grande crisi. 

Nella concorrenza (vi sfido e vi batto sul vostro stesso terreno, i conti, i profitti...) si sarebbe evidenziata la superiorità, pratica e etica, dell'azienda pubblica di mercato. Più profitto, più spesa socialmente utile. 

In Europa, le politiche socialdemocratiche, soprattutto scandinave, ma anche più a sud nel continente, hanno evidenziato però notevoli problemi di burocraticità, spreco, zavorra clientelare e inefficienza... Questo non significa che dagli errori non si debbano ipotizzare come realizzabili profonde 'riforme di struttura' (usando una terminologia Pci anni 60 e 70) e migliorare il welfare, lo stato sociale in senso né statalista né 'mafioso'.

Il regista britannico Kenneth Loach

Un film importante e controverso, un'opera non fiction diretta da un cineasta progressista come il britannico Kenneth Loach, si è occupato proprio di questo problema, cruciale e nodale (e la Bim ha fatto strabene a distribuirlo in Italia, in piena crisi anche dell'ideologia liberista, in una coraggiosa edizione originale con i sottotitoli).  Diffonderlo nelle scuole sarebbe pratico e doveroso.

E, a proposito del modello socialista del laburismo britannico postbellico (la sinistra guidò il paese dal 1945 al 1951) che il film racconta - e che fu modificato comunque esizialmente, perché la politica obbliga al 'compromesso storico' con la borghesia - già si rintracciano errori e timori paralizzanti della sinistra. Il non coinvolgimento dei sindacati nella gestione azindale. La mancanza cronica di investimenti. L'assenza di una pianificazione di lungo periodo provocarono il fallimento delle nazionalizzazioni.

Ma soprattutto la mancata epurazione dei manager pre-nazionalizzazione. Il caso delle miniere, nazionalizzate e rese operative 24 ore su 24 per tutto l'anno, è emblematico: perché poi furono affidate - come ci racconta un'avanguardia di lotta - in amministrazione e coordinate proprio dagli stessi vecchi sgherri dei padroni privati, sia a livello locale che nazionale.  

Il principio guida delle nazionalizzazioni british style era che le società sarebbero state gestite come un business commerciale, non direttamente dal governo, ma da una 'corporation pubblica'. I vecchi manager rimanevano al loro posto e i proprietari venivano intermaente risarciti in buoni del tesoro. Contratti di lavoro e diritto di sciopero rimanevano inalterati (e inalteratamente repressi dai manganelli dei poliziotti).

Luglio 1945: il Labour Party vince contro ogni previsione e sondaggio le elezioni politich

Ma per un momento fu grande festa. Siamo a Londra, nel 1945. Nelle piazze e nelle strade si balla, a ritmo di swing e anglo boogie-woogie (grandiosa la colonna sonora, quasi tutte jazz band dell'epoca), per festeggiare la fine della guerra dei sei anni.

Uno spettro si aggira però nel paese e incupisce i volti raggianti delle ragazze che baciano, quasi discinte, i marinai di Piccadilly Circus. L'incubo di tutto il popolo britannico è di ripiombare nel 1919 postbellico, con tanto di stenti, devastazione sociale, miseria, slums, fame, disoccupazione, infezioni, sfruttamento, infortuni assurdi sul lavoro e malattie, incurabili solo perché mancano ai lavoratori i soldi per curarsi...

Per illustrare quel frangente delicato Ken Loach torna dopo anni al documentario, quasi parallelamente all'uscita del libro Austerity Britain, scritto dallo storico David Kynaston su quel periodo chiave della storia britannica. E si chiede: basta nazionalizzare il 40% delle capacità industriali di un paese per attraversare una 'fase socialista' di crescita economica, o senza un controllo 'dal basso' sprechi e inefficienza faranno crollare l'intero progetto?

Loach ritrova così nel passato antiche cose dimenticate, ma molto attuali, e in qualche modo riassume in questo film l'intero atlante del suo cinema (lotte operaie e nei servizi, privatizzazione delle ferrovie, sconfitta dei minatori, guerra di Spagna, radiografia di un interno proletario...). 

E ci scodella le parti migliori del materiale d'archivio statale e regionale che ha rintracciato con i suoi implacabili collaboratori, per lo più in squillante bianco e nero, intervistando per commentarle (sempre in un bianco e nero suggestivo) trentatre tra testimoni militanti d'epoca, minatori, operai, infermiere, ex combattenti in Spagna dalla parte giusta, madri di famiglia, ma anche storici radicali, sindacalisti, militanti e leader della sinistra laburista come Tony Benn.

Una casalinga, nel footage d'archivio, davanti al palazzo dove viveva, completamente distrutto da un bombardamento tedesco, commentava in uno stile più british che neorealista di fronte alle macerie: "e pensare che avevo lavato tutti i vetri dell'appartamento proprio ieri".

"Abbiamo vinto la guerra insieme, insieme potremmo vincere la pace. Lo spirito di collaborazione e solidarietà che ci ha accompagnato durante le campagne militari antifasciste, ci potrebbe aiutare a ricostruire il paese e a farlo funzionare meglio,  creando, dal basso, una nuova fabbrica sociale. Lo dobbiamo ai nostri fratelli e sorelle morti sul fronte o sotto i bombardamenti". Eccolo lo spirito del 45. Autogestione e qualche miliardo di sterline del piano Marshall per far ripartire e modernizzare le industrie...


E' quel che voleva il 70% del paese, i lavoratori e le lavoratrici scozzesi, gallesi, inglesi e nord irlandesi. Si chiama controllo operaio. 

Però, ci si chiede, perché mancano un po' dal documentario, sono proprio sempre fuori quadro, i lavoratori e gli intellettuali di origine asiatica, antillana e africana, la working class del Commonwealth? Una stranissima assenza, notata da qualche collega inglese, perché gli aliens avranno una parte non insignificante nella prosieguo della vicenda. Il fatto è che il film è non affatto di parte, ma ha certamente un tono nazionalitario, sanamente patriottico. E nel 1945 lo 'spirito' è tutto wasp, white anglo-saxon protestant.

Fino al 1948 infatti sono solo 30 mila i 'non bianchi' che abitano nel Regno Unito, anche se si fanno sentire. Una legge laburista di quell'anno estende la cittadinanza a tutti gli abitanti dell'Impero (compresa l'India che sta lottando per l'indipendenza) soprattutto per ringraziare le migliaia di soldati canadesi, neozelandesi, sudafricani, australiani, e anche africani e neri caraibici, morti sui campi di battaglia... Si tratta di circa 450 milioni di cittadini britannici, tutti con gli stessi diritti, che abitino a Nairobi o a Liverpool.

Luglio 1945: Clement Attlee festeggia la vittortia elettorale
Se si rievoca, nel film, lo 'spirito del '45', quello che spinse un intero popolo attivato a cambiare il proprio futuro, è proprio per spronare la gioventù europea di oggi . E mettere in altra luce la signora di ferro, che si sarebbe incaricata di cancellare dalla storia e dalla memoria, a partire dal 1979 e con particolare violenza a Brixton, dove i bobbies scatenarono tutto il loro razzismo... 

Nel frattempo erano cambiate molte cose. Tra il 1948 e il 1962 per rimordernare le industrie, bisognose di lavoratori non specializzati, erano stati risucchiati in Gran Bretagna cinquecentomila proletari, per lo più provenienti dalle West Indies, dall'India e dal neonato Pakistan. L'ondata di razzismo scuote la perfida Albione.  E' l'epoca dei cartelli sui negozi: "no irlandesi, no neri, no cani".  Sarà presto quella di Enoch Powell e delle sue gang neonazi del Fronte Nazionale. 

 
Margaret Thatcher, leader conservatrice, vittoriosa nel 1979
Ma contemporaneamente, si afferma la strategia (ambigua) del multiculturalismo che si vuole contrapporre al melting pot e alla transculturalità: "l'integrazione non è un processo di assimilazione del diverso ai nostri valori, ma significa permettere una eguaglianza di possibilità per tutti, accompagnata dal rispetto della diversità culturale e dalla tolleranza reciproca" (Roy Jenkins, ministro laburista del 1968). Poco dopo i governi conservatori smantelleranno anche il diritto di cittadinanza per i lavoratori del Commonwealth. E i disordini razziali si moltiplicheranno.
Ma torniamo indietro, a quelle sorprendenti elezione del luglio 1945.   

Miracolo, il grande vincitore del conflitto antinazista, il liberale Winston Churchill, viene sconfitto nel 1945 e addirittura violentemente fischiato quando, durante la campagna elettorale, ha usato gli abituali e 'sempre verdi' slogan della destra ("noi siamo per una diseguale ricchezza, loro per una uguale povertà") e si è permesso di accusare violentemente gli ex preziosi alleati sovietici paragonandoli alla Gestapo (un cavallo di battaglia del pensiero reazionario, ma in quel momento doveva suonar ancor più infame).

Vince la sinistra. Si potrà costruire la "Nuova Gerusalemme". Il manifesto elettorale laburista, al paragrafo IV, quello che poi Tony Blair cancellerà (per fare un favore a Renzi?), promette di "assicurare ai lavoratori materiali e immateriali il pieno frutto del proprio lavoro, sulla base della comune proprietà dei mezzi di produzione, della distribuzione e dello scambio". Lo stesso manifesto garantisce un decente standard di vita per ogni famiglia. Quel manifesto seduce la maggioranza degli elettori. 

Il paese così volta pagine. E manda al governo il laburista Clement Attlee che, con il suo coriaceo ministro dei lavori pubblici e della sanità, Aneurin Bevan, detto Nye, scandalizzarà per una decina di anni tutti i profeti del libero mercato (che lo chiameranno il 'fuhrer della medicina', anche se ci sarà chi, come il professor Harry Keen, 87, fonda e guida una associazione di medici pro Nhs e spiega a Loach il perché). 


Clement Attlee
Si attua a poco a poco, e non senza contrasti di classe anche aspri, e perfino con la classe operaia (quando, nel 1948, la guerra fredda costringerà Attlee a scegliere con chi stare, starà con Truman e non con Stalin), la politica economica di Keynes, basata sulle nazionalizzazioni strategiche (acciaierie, porti, strade, ferrovie, energia...), sul controllo pubblico delle banche e sul welfare, su una forte spesa edilizia, scolastica e sanitaria statale e sulla fine delle spese coloniali (è Attlee che firma l'indipendenza dell'India e gestisce il ritiro dalla Palestina). E' la rivoluzione nella democrazia. Durerà poco.

Ed è ancora spirito del '45: lo stato si impadronisce delle industrie chiave che i capitalisti privati hanno piegato alla sola logica del profitto, con conseguenze irrazionali e paradossali (trasporti pubblici intasati, acqua, energia e telefonia a tariffe alte, edilizia e miniere funzionanti a singhiozzo...) e impone per la prima volta nella storia l'assistenza sanitaria pubblica e gratuita per tutti, terrorizzando, ma poi cooptando, una parte della corporazione medica (gli specialisti).  

Aneurin Bevan, ministro della sanità e dei lavori pubblici
L'utopia plausibile di F.D. Roosevelt, il capitalismo embedded, sottoposto a regole ferree, e particolarmente frenato nei suoi bassi istinti rapaci soprattutto durante le crisi economiche che le mega-corporation provocano ciclicamente per ingrandirsi (è la loro malattia incurabile) e mangiare i pesci piccoli, si realizza invece in Europa. 

Per la classe operaia è la rivoluzione western style, quella che 'non russa'. Un minatore vedrà spendere soldi pubblici per rendere sicure le gallerie sotterranee, prima di essere spedito a riempire più carrelli di carbone possibili senza pù rischiare la pelle all'80%. Affitterà a prezzo contenuto una casetta a due piani (con il giardino, la cucina e il bagno!) nei suburbi, costruita in soli 12 mesi proprio per lui, invece di ammalarsi di tubercolosi nelle solita spelonca ammorbante, permettendosi cure per tutta la famiglia, invece di vederne morire una parte per mancanza di scellini e pence. Dovrebbe, certo, avere molti più soldi per la sua fatica bruta, rispetto a chi ha lavori 'creativi e piacevoli'. Ma questo sarebbe comunismo....    

La sera stessa della vittoria elettorale di luglio, Atlee presenta al popolo il suo governo in un teatro londinese, al Limehouse, e annuncia: "il mio programma sarà socialista". Sembra Allende. Non finirà come lui. Ma il labour mollerà a poco a poco la presa... 

Quando i minatori e gli operai bianchi inglesi, ricordando le privazioni, gli stenti, la repressione degli anni venti e trenta, si chiederanno come mai il più grande impero del mondo avesse potuto trattare per secoli i suoi concittadini come schiavi, da una parte si ricorderanno di Karl Marx che, analizzando la sconfitta del 1848 tedesco, scriveva: "in un punto i borghesi prussiani si avvicinano all'ideale inglese: nel maltrattare sfrontatamente gli operai". 

E poi si chiederanno se quella magnificenza urbanistica e sontuosità da capitale del mondo di Londra non sia stato il frutto della rapina coloniale, piuttosto avida e continuata, all'opera da almeno 4 secoli. Ecco perché ci sono voluti gli israeliani per costruire il mega centro commerciale di Nairobi, ora in briciole, e non è successo invece il contrario, che fosse keniana la proprietà e l'edificazione del palazzo dei Lloyds di Londra...   

Bevan e la sua riforma sanitaria
Tra gli intervistati da Loach nel documentario (più appassionante di un 'romance', più thrilling di un horror,
più informativo di un tg3) c'è l'ex Ray Davies, 83 anni, veterano gallese della guerra di Spagna (e il berretto rosso che ha in testa non smentisce) ed è lui che ci ricorda i morti nelle viscere della terra, assassinati senza scrupoli (e senza galera) dai padroni. Li ha visti con i suoi occhi i suoi colleghi morti schiacciati dalle pietre perché mancavano le impalcature di sostegno corrette, quando scendeva nelle gallerie a 15 anni.  

Ray Davies, il combattente di Spagna
Un minatore, allora, anche senza incidenti, aveva una vita media di 42 anni. E una novantanovenne di Liverpool, Eileen Thomson, cresciuta negli slums degli anni 30: "Volevamo lavoro e tranquillità, non eravamo particolarmente ambiziosi né avidi, ma non volevamo più vedere sfilare nelle strade orde di disoccupati affamati e questuanti come durante la grande crisi. Uno per tutti e tutti per uno, le case per molti e niente stralusso per pochi. Queste erano le nostre parole d'ordine".    

Bevan alla radio
Chissà perché oggi tutti mitizzano la Thatcher e investono miliardi per glorificarne la figura, anche se fu oltre che una teppista sociale anche una supporter strenua dell'apartheid di Pretoria e dunque un essere moralmente ributtante a livello basic (gli occhi di Meryll Streep non sono riusciti a incorporarne quello sguardo da squalo). 

E invece nessuno ha mai fatto un film sulla rivoluzione del National Health Service, il servizio sanitario nazionale, che, nato nel 1948, la Thatcher non riuscì proprio a distruggere, nonostante i suoi tentativi, se non in un pezzetto, societarizzando le compagnie che si occupano del vitto e delle pulizie negli ospedali (con risultati orrendi, ci spiega l'infermiera Karen Reissmann dal punto di vista dei costi pubblici, perché pulizie mal fatte, un solo turno invece dei due pubblici precedenti, significano più infezioni e infezioni significano più spesa medica). Credo che sia per questo motivo che Loach ha considerato necessario, indispensabile, soprattutto per le nuove generazioni ignare, preparare questa lezione di storia, in puro spirito 'rosselliniano'. Il fatto è, commenta Ray Davies, che 'solo il popolo aiuta il popolo'. Lo abbiamo imparato allora, ma oggi molti lo hanno dimenticato. 

Spirit of 1945. Parla il medico
June Hautot, 76 anni, che vive nella zona sud di Londra, ricorda nel film che suo padre, operaio delle ferrovie, ferito in guerra e sua madre, malata di cancro, furono più truffati che curati dalle compagnie d'assicurazione private. Solo quando nacque l'Nhs le cose cambiarono e l'assistenza divenne 'meravigliosa'. La signora Hautot, una celebrità dei media britannici per aver affrontato pubblicamente, al grido di 'vergogna', il ministro della salute Andrew Lansley a Downing Street, colpevole di tentata privatizzazione della Nhs, ricorda anche le parole di Tony Benn, il leader della sinistra laburista: "Non è la politica, non sono i politici, ma è solo il popolo che cambia le cose". E aggiunge: "Nessuno ci strapperà la Nhs. Nessuno".  

Margaret Thatcher ha provato, anche lei in perfetta continuità con il pensiero e le opere di San Francesco (che cita, appena eletta, con passione, in una delle scene più interessanti del film) a cambiare il cuore e la mente dei suoi concittadini rovesciando l'impostazione di Attlee: individualismo invece di socialità, niente tasse, libero mercato, privatizzazioni, smantellamento delle organizzazioni sindacali, monetarismo. Nel 1984 distrusse le miniere e Skargill. Subito dopo tornarono agli azionisti privati British Telecom, British Aerospace e British Gas. Acciaio, acqua, Rolls-Royce e British Airways furono privatizzate. La disoccupazione falcidiò l'industria siderurgica, mineraria e manifatturiera.Il governo Cameron tuttavia non demorde e ha concepito nel 2012 la Health and Social Care bill, che vorrebbe privatizzare il sistema sanitario e che nel film viene contestata da robuste manifestazioni di massa. 

Eppure l'economista James Meadway cerca di spiegare a Loach perché è un luogo comune affermare la superiore efficienza del settore privato su quello pubblico. O c'è chi pensa davvero che l'attuale austerità sia colpa delle eccessive spese sociali e degli sprechi del settore pubblico voluti per anni dai governi di centro sinistra? Eppure il governo Labour spese meno (il 39% del Pil) nel settore pubblico rispetto a Major (40%) e Thatcher (41%). 

La parola allo storico
Sempre Meadway ci invita a scrivere altre storie e parlare di  "Quelli che considerano la solidarietà più importante della concorrenza e vogliono difendere il comune e il pubblico dall'incursione interessata del privato. Se non scriviamo questa storia possiamo dire addio al welfare.  O se, come afferma Loach, "siamo in una società in cui una gran parte dei cittadini ritiene di non essere parte della politica". Invece, come nel 1945, dobbiamo ricordare il succo di quella lezione: in quella elezione vinse il controllo democratico sull'economia. Ecco perché alla fine del film le immagini delle ragazze gaudenti che ballano e si spupazzano i loro soldatini diventano, da bianco e nere che erano, dei fiammeggianti, vittoriosi technicolor. 

sabato 21 settembre 2013

Camp e campagna. 'Tom in fattoria' di Xavier Dolan, l'enfant prodige del Quebec

Il 'portiere di notte' gay.
Ma il problema è.
E' un film separatista o federalista?
E come ne esce lo stereotipo del "biondino ossigenato"?
E' per la bastardaggine e la promiscuità o per la purezza apartheid?
Oppure il film è bello perché ci spiaga in soli 95 minuti cos'è il Canada e perché sta per esplodere?
  





Roberto Silvestri



Premessa. Il film è stato premiato a Venezia dalla Fipresci. Ci tocca prendere posizione. Voto? 5? Certo è irritantemente vecchio, prevedibile, mai sorprendente. e rileggiamo i classici, paragrofo 'il biondino' (Il cinema vuol dire... di Porro, Turroni, Rezoagli, nuova edizione pag. 37):

Nel cinema italiano, il "biondino" (non il biondo che è un'altra cosa, può essere perfino un detective, diretto da Stelvio Massi)  non è cattivo però debole, troppo debole, molto spesso legato alla madre, e con tendenze omosessuali. E' troppo fine, delicato e femmineo. I bruni sono forti e tutti d'un pezzo. In Ritratto di borghesia in enro (1978) di Tonino Cervi, Christian Borromeo, il figlio di Senta Berger, non solo è un po' innamorato della madre, ma anche concupisce le grazie fredde e distanti dell'amico Stefano Patrizi. Il peggio è che, anche, egli è non solo biondissimo, ma ha anche occhi azzurri...Il biondino 'ossigenato' fa parte di una casistica da film 'nero' o 'giallo': può farsi pestare emettendo gridolinistrazianti (brevi, però, rassegnati) dall'investigatore o dal poliziotto. E' imlicato in traffici di droga e tenero e devoto amico di passeggiatrici sagge e dolorose.

L'orrendo Putin sputerebbe epitetti più volgari. Ma avrebbe torto. Nell'omosessualità latente e patente tra biondino ossigenato e bruno palestrato ci sono proprio le intuizioni più sorprendenti  di questa opera quebecoise (cioé menscevica, di minoranza). E se fosse l'apertura sessuale, e non la sua separazione, il grimaldello giusto per aprire delle porte e delle finistre colpevolmente chiuse?

Infatti. Il viaggio del cugino Tom possiede proprio qualcosa di speciale, come un fraseggio di Django Reinhardt. Di inquietante. Di apocalittico. Ma anche di fuoriuscita da un  incubo leghista. Non chiude le cose. Profeticamente inquieta, è apocalittico, non integrato. Tende a dirci, nella sua metafora light: tra poco questo paese si spaccherà in due. E non deve.  E' inevitabile. Ma va contrastato. Non basta l'attrazione fatale e storica per 'il diverso'. Oggi l'identico, l'identità, le radici, il sangue pretendono arrogantemente di prevaricare l'altro, il diverso, l'altro. O di separarsene. Peccato, il Canada, è l'unico paese al mondo di lingua francese e inglese. Un unicum. Ma i francofoni non amano l'anglofono e viceversa. E così qui si radiografa il campo magnetico di attrazione e repulsione tra un uomo e il suo (apparentemente) opposto.


Bisognerebbe conoscere meglio le sfumature artistiche in senso lato, dunque anche politiche e antropologiche, di un paese che si esprime con un film, in questo caso il Canada che vive un problema di identità non indifferente, prima di esprimersi criticamente su un film. Non dovremmo mai estraniarci dalla battaglia delle idee e dei corpi che lì dividono, come ovunque, progressisti da conservatori, rivoluzionari da reazionari. Se un critico non lo sa fare, non lo vuole fare o irride chi lo fa è meglio che cambi mestiere. Non arriverà mai al cuore del lettore/spettatore e di se stesso.  E sono i dettagli a contare... Senza conoscere bene come si è articolato il multiculturalismo a Toronto e Montreal, se c'è qualcuno che stia cercando di trasformarlo in feconda transculturalità, senza maneggiare tutte queste ovvietà e le profonde sfumature social cultural politiche sottintese, è mai possibile penetrare in un testo complesso come un film? Il contesto complesso dovrebbe richiedere una certa modestia prima di sparare il giudizio: magnifico o cazzata. E se il film non prende, cioé se la scienza critica ci dice che non è innovativo, non spiazza, non trasforma la godardiana 'notte in luce', che è noioso, che è pieno di banalità autoriali, mentali e iconiche (che sono identiche alle ovvietà hollywoodiane, altrettanto insopportabili, ma molto più trombonesche)? 

E passiamo al film, di tendenza.
La tendenza sociale più cool (Bala Tarr insegna) per un solitario drogato di metropoli è: abbandonare le città inquinate e tornare ai lavori nei campi, magari - ma qui Bela Tarr non sarebbe d'accordo - con trattori posmoderni ad aria condizionata. La gran moda è il chilometro zero e l'agriturismo.  O almeno risciacquare i panni mentali regalando ai sensi altri sapori, odori e odoracci. Ma attenzione. Certo non mancheranno i problemi, l'avventura, addentrandoci nel provincialismo rurale, è rischiosa.

Una scena di Tom a la férme
La tendenza contenutistica è seguire la scia 'mélo' dell'amore fou o impossibile, in Italia rappresentata perfettamente, da anni, dall'italoturco Ferzan Ozpetek e avvinghiarla al thriller psicologico (con la 'drammatica' sottotraccia della omosessualità, ben introdotta o ben sepolta, esplicita o rimossa in ormai tutte le famiglie borghesi o meno, vedi anche Filomena).

E la tendenza stilistica? Una tensione pronunciata verso lo sfilacciamento dei generi (in questo caso mélo, thriller psicologico, road movie...), con libertà di fraseggio totale. Con scene basate sull'improvvisazione documentaria, sulla cattura del sapore dell'istante, ma 'preso a pugni in faccia' da sciabolate improvvise di incandescenza espressionista (che poi non è altro che la stratificazione storica della memoria e del passato sul presente, fino a deformarlo, sformarlo).

In questo film sulla sindrome di Stoccolma (quando il violentato ribalta in sentimento positivo, fino all’amore, il suo rapporto nei confronti dell'aguzzino) che è una sorta di horror-ombra, di gore-movie non consumato, in concorso a Venezia e poi girato nelle rassegne di Roma e Milano,  alcune scene sono di incandescente rottura espressionista: l'improvvisa colluttazione, quasi horror, a letto, nel cuore della prima notte in campagna, con l'eroe aggredito dall'anti-eroe.  O la brutale aggressione immaginata perché a porte chiuse, ma di identica prepotenza acustica, nella toilette, il giorno dopo (con tutto quel che significa il segno cesso pubblico nella guerra di indipendenza gay). O quella lunga sequenza quasi realista-socialista tra le spighe di grano, con l'inseguimento, l'ennesimo (gradito) pestaggio, il perverso gioco sado-maso/omo-macho. Immaginatevi Monet alle prese con un quadro che vorrebbe fare 'alla Kokoschka' per avere un'idea di cos'è Tom a la férme e la sua diversità...

Xavier Dolan dirige se stesso
Questa sovrimpressione deve essere piaciuta molto alla giuria Fipresci e alla critica internazionale che ha premiato Tom in fattoria - e il suo autore, l'enfant prodige scoperto da 'Cannes-Certain Regard', il giovanissimo Xavier Dolan, regista sceneggiatore e attore protagonista - come la migliore e più originale opera della Mostra d'arte cinematogrtafica di Venezia numero 70.

Dal romanzo di Michel Marc Bouchard, ecco un caprolavoro annunciato, set l'aspra campagna canadese grigio verde, tra trattori, frumento e allevamenti moderni di mucche e pecore. Lo scontro, l'abisso, l'incomunicabilità culturale tra radicali di sinistra con tutte quelle loro idee strane sulla vita e conservatori terragni eredi di una antica e iscalfibile tradizione familiare cristiana e patriarcale.  Anche se il pater familiae è assente. Vincerà la birreria di campgna o l'happy hour con il Vodka Martini? Prevarrà il corpo o la mente?

Così ecco che uno stragay di città, giovane pubblicitario rampante, efebico e biondo phonato (è lo stesso regista e sceneggiatore Xavier Dolan, di Montréal, Quebec), è spaesato e anche un po' incazzato, quando arriva in questo piccolo mondo antico con la sua auto nera.  Ma deve farlo. Il giorno è speciale. Deve dare l'ultimo addio al suo unico grande amore.

Sembra fragile, il ragazzo, ma è ostinato, si piazza nella casa vuota e, come fosse in un film noir, aspetta in poltrona, nella penombra, l'arrivo dei suoi proprietari, poi si presenta alla padrona di casa, e passa la notte lì. C'è un funerale in corso. "Sono un amico del defunto". 

Il cittadino ritrova i sapori dei campi rudi e brutali e affronta e poi conquista, a poco a poco, il 'maschio locale' più prepotente e manesco della zona. Che, guarda caso, è il fratello omofobo del suo amante, morto di aids, di cui si è appena svolta, appunto, la cerimonia funebre. Il fratellone lo odia e vuole controllarlo perché non rompa l'equilibrio infettando la comunità con comportamenti sessualmente eversivi e idee eretiche.

Non deve dire di essere stato l'amante del morto. Ma deve raccontare com'era felice in città con quella dolce ragazza che voleva sposare per fabbricar eredi anche se, accidenti, come mai, cos'è successo?, lei non si è presentata alle estreme esequie addolorando mamma. Roba da matti. Meglio scappare. Scappa. Ma poco dopo ritorna. Siamo fatti strani dentro.

Per proteggere la salute mentale e la tranquillità psicologica della signora e l'onore della famiglia tutta il cittadino accetta di diventare la marionetta del campagnolo che gli impone un comportamento impeccabile. Se no botte. Dovrà fare il suo discorso funebre commuovente ma 'asessuale'. Dovrà dilungarsi sul rapporto d'amore con quella fidanzata bella e adorabile. Dovrà poi prendere la sua automobile e sparire per sempre.

La mamma non dovrà sapere nulla. Ma il tempo passa, l'automobile resta posteggiata nel cortile, i due ragazzi fraternizzano, si fanno una birra insieme, e addirittura si mettono a ballare un tango consensuale in fattoria. L'ospite dimostra che c'è addirittura un certo feeling tra effeminatezza gestuale e spirituale e perizia nel trattamento delle mucche e degli stalloni. Non si finisce mai di imparare. Non è un caso che Judy Dench in Filomena, nella scena madre del film, quando tutti vogliono proteggerla dalla notizia che il suo caro figlio morto fosse gay, rompe gli indugi e esclama: "ma certo, me n'ero accorta, non a caso indossava la salopette". Il tipico indumento del rude contadino, del serial killer dei belt countries in ogni slatter che si rispetti.

Xavier Dolan (a sinistra), il 'cattivo' Pierre Yves Cardinal (a destra) e Lise Roy
Detto questo non si è detto tutto sul film. Che è anche insopportabile. Perché questo bignami condensato di trent'anni di 'Da Sodoma a Hollywood', tra effetti hard e ammiccamenti soft che radiografano lo spettro pulsionale del cinema omosessuale,  trovano qui un giusto, irritantissimo, equilibrio. Altro che The Rocky Horror Picture Show. Alla fine la morale sembra rovesciata. Sognalo, ma non farlo. Ma non dimentichiamo che lo strappo finale ha più un significato simbolico. Il Belgio è natoda una rottura rivoluzionaria vallone. Che si riprenda quel filo. Che anche i francofoni comincino a porsi il problemi di un Canada, di un nord America, di una comunità non introversa ma estroversa, non chiusa ma aperta. Se no la tregua etnica è bene che si rompa. E che ognuno vada per la sua strada. Da una parte Parigi, dall'altra Washington dall'altro i nativi....

giovedì 19 settembre 2013

Arrugas (Rughe), esce nei migliori cinema d'Italia il cartoon spagnolo che ha conquistato la Ghibli di Miyazaki

Se volete scoprire qualcosa di diverso al cinema, filone Bruce La Bruce
se volete farvi sorprendere
se volete diventare più giovani di spirito
dovete vedere Arrugas - Le rughe, cartoon spagnolo per tutti



di Roberto Silvestri

Attenzione. Bisogna scovare nei prossimi giorni nelle sale preferite della vostra città (e se non lo troverete richiedetelo direttamente ai distributori indie) Arrugas – Rughe. Un film straordinario (prima mondiale al festival di San Sebastian del 2011) che narra l’amicizia tra il galiziano Emilio, ex dirigente periferico di banca, e l'argentino Miguel, due anziani abbandonati dalle famiglie, inesperte e un pochino disumane, che s’incontrano in una residenza geriatrica modello dotata perfino di piscina (anche se è chiusa e nessuno la usa) e vengono messi nella stessa stanza. 

I bambini che vedranno il film troveranno bizzarra e divertente la storia di questa amicizia, messa sempre in discussione a causa dei caratteri conflittuali della strana coppia, introverso e formale l'uno, quanto estroverso e 'poco ortodosso' l'altro.

Emilio, che arriva in uno stato iniziale di Alzheimer, verrà aiutato dal furbo Miguel e da altri compagni e compagne, a non finire al tanto temuto ultimo piano dell’istituto, dove viene recluso (urlante) chi ha perso la ragione e non può più provvedere a se stesso.




Il metodo che Miguel usa è fingere di mangiare sempre tutto, nascondere ogni defaiances, sua e degli amici, agli infermieri e ai medici, non prendere mai le pillole che rimbambiscono, progettare fantasiosi piani di fuga, farsi qualche bella nuotata in piscina al di fuori dagli sguardi indiscreti, raccogliere con ogni mezzo necessario (anche umanamente scorretto) tutti i soldi utili a comprare clandestinamente una fuori serie dal tetuttccio reclinabile (che servirà per la grande fuga) o un cagnolino ), per un altro amico sull'orlo della depressione, non reprimere mai i ricordi d'infanzia (sono le scene più alla Miyazaki), i flash back piacevoli e le fissazioni più fantasiose e 'pazze' (come immaginare di trovarsi sull'Orient Express, ventenni, charmant e fumando una sigaretta all'ambra con il bocchino)...

Il film che non utilizza solo il supporto digitale è costato 'solo' due milioni di euro. Dunque non può pretendere una animazione dettagliata e a tutto tondo, né le centinaia e centinaia di coloristi, inchiostratori e animatori a cui ci aveva abituato la classicità Disney e perfino qualche recente film francese (L'illusionista, per esempio). 

Dunque i movimenti sono semplificati, e si concentrano sugli occhi, le ciglia e su lievi movimenti della testa e del corpo. Per fortuna le condizioni fisiche dei nostri portagonisti non costringono a movimenti fiammeggianti e esagitati. Non poche le difficoltà di lavorazione che vengono così esibite (con trasferimenti dal Belgio alle Filippine per risparmiare sui costi). 

Ma la missione impossibile  di tingere con i toni pastello della commedia lieve una storia teneramente tragica, dal retrogusto dark e perfino insostenibile, che dell'avvicinarsi della morte, e della perdita di controllo progressivo delle facoltà motorie e mentali tratta, è perfettamente riuscita. 

Anche per la maestria narrativa del regista Ignacio Ferreras e dei quattro sceneggiatori (Ángel de la Cruz, Paco Roca, Ignacio Ferreras e Rosanna Cecchini, disegno dei personaggi di Paco Roca) che trasformano la quotidianità altrimenti tediosa della residenza asettica, dove per molti la vita sembra ormai finita, in avventure continue, progetti, fantasie erotiche, colpi di scena. Quasi un richiamo ai grandi classici del cinema della vecchiaia non consolatori, da Umberto D. a Cocoon alla Vecchia signora indegna di René Alliò. 

Quando nasce una nuova distribuzione bisogna colpire subito il pubblico con un'opera originale, forte, sorprendente e fuori del comune. Che però può attivare il pubblico più attento e costruire un mercato 'in più'. E' questo il caso. Anche perché questa nuova distribuzione ha origini in un festival che da qualche anno avvicina una cinematografia come quella iberica un tempo strettamente intrecciata alla nostra ma recentemente sparita dal nostro immaginario.

La scelta di Arrugas (Rughe) si muove proprio nella direzione dell'uppercut delicato. Il cartone animato per adulti, e dalla tematica più che forte, ha infatti ormai un suo pubblico mondiale consolidato. Grazie ai festival e all'appoggio critico, non solo il docu-cartoon israeliano Valzer con Bashir e la graphic novel mobile franco-iraniana Persepolis, ma anche l'hollywoodiano Up! di Lasseter (protagonista un vecchio così indisponente che gli stores Disney si sono rifiutati di venderlo come merchandising) e il nuovo Miyazaki (protagonista un costruttore di aeroplani da guerra degli anni venti e trenta che saranno quelli dei kamikaze) hanno forzato gli standard del cartoon per bambini (accompagnati dagli adulti) e scelto esplicitamente il target degli adulti di tutte le età (accompagnati dai bambini).   

EXIT med!a, l'organizzazione che promuove il Festival del cinema spagnolo di Roma, ha escogitato così, da qualche tempo, una nuova formula per diffondere cinema di qualità in Italia, paese dal crescente analfabestismo, lobomotizzato da flussi informativi sempre più ristretti o sciovinisti, o trattati sempre più col 'bromuro'.   

Le uscite di Rughe, misurate sala per sala, per cogliere a fondo le specificità e le particolarità di ciascun contesto territoriale, sono iniziate a Roma e Milano, proseguite a Cagliari e da settembre di nuovo a Roma (Nuovo Cinema l'Aquila alle 1830 e 20.30), La Spezia-Lerici, in Friuli Venezia Giulia e in Veneto, oltre a Firenze, Lucca, Napoli e Bologna.   

Arrugas – Rughe, che dura 89',  ha raccolto un grande successo di critica e pubblico in patria, è uscito già in Francia, Regno Unito e Stati Uniti (Matthew Modine ha partecipato al doppiaggio), e sarà distribuito a breve anche in Giappone, uno dei mercati più ermetici per le animazioni straniere, dal mitico Studio Ghibli. Tutte le sale, i cineclub e gli organizzatori di rassegne interessati possono contattare www.cinemaspagna.org/arrugasilfil o exitmedia.info@gmail.com o telefonare alla direttrice del festival Iris Martín-Peralta  (+39) 380 590 8856.  
Ma perché un festival viene istigato a distribuire? 
I festival servono a promuovere la distribuzione, anche telelvisiva, dei film più interessanti di tutto il mondo. Ma qualche volta un festival (il festival del cinema spagnolo di Roma, in questo caso) stanco della vigliaccheria dei distributori, degli esercenti e dei responsabili delle programmazioni cinematografiche di Rai, Mediaset, Sette e Sky, è quasi costretto a diventare distributore in proprio. Non si può fare solo vetrina, una volta all'anno.  Bisogna rischiare.

L'ultima edizione del festival spagnolo, svoltasi nel maggio scorso al Farnese, ha decretato anche in Italia il successo critico e di pubblico di questo film animato spagnolo (anzi gallego, per set, e diretto da un valenciano) per adulti che è uscito nel 2011 e ha vinto premi internazionali e il Goya madrileno non solo come migliore cartoon ma anche (ed è la prima volta nella storia spagnola per un film d'animazione) come migliore sceneggiatura non originale. Arrugas (Rughe) è infatti tratto da una graphic novel del 2008 di Paco Roca (Premio Nazionale del Comic 2008, edito in Italia da Tunuè col titolo ‘Rughe’).  

In memoria di Richard C. Serafian e di Punto Zero, nascita hollywoodiana della macchina desiderante

di Roberto Silvestri 


In Capire con il cinema di Goffredo Fofi non si parla mai di Richard C. Serafian. Nel Dizionario dei registi del cinema mondiale di Gian Piero Brunetta non c'è Punto zero (Vanishing Point). Nell'enciclopedia Filmlexicon silenzio assoluto su entrambi. Non ci può essere tutto, certo. Figuriamoci, per fare un esempio, quanti cineasti dello Sri Lanka son sfuggiti, qui e lì a guide e mappe (neanche di Peries, padre e figlia, c'è traccia)!
Richard Caspar Serafian (1930-2013)

"Non credevo assolutamente che Vanishing Point sarebbe sopravvissuto tutti questi anni - ha raccontato nel 2009 Serafian a un giornalista web - Certo, abbiamo lavorato duro sotto il sole cocente ma quel che davi al pubblico erano pochi baci e la nostra visione di ciò che stava succedendo... libertà, strade senza fine e lasciare che le carte cadessero dove potevano"

Pero' nei titoli di coda di Death Proof, Quentin Tarantino ringrazia Sarafian perché Vanishing Point è stato uno dei film che più lo hanno ispirato. Nel 1997 la band rock scozzese Primal Scream chiama il suo album Vanishing Point, in omaggio al film che, parola del leader Bobby Gillespie,  adora per l'aria di paranoia vitale, per la velocità e per il senso di giustizia che ispira".

Infatti il contributo di questo cineasta di orgini armene e in particolare di questo classico del cinema Usa on the road che gli dette celebrità mondiale, e che non manca di legami segreti sia con Walt Whitman di "Song of The Open road" che con George Lucas di American Graffiti, è stato gigantesco.  Si capisce che Serafian fu per tutta la vita un grande amico e assistente di Robert Altman, e che ne sposò la sorella Helen Joan (morta due anni fa) da cui ha avuto 5 figli, tutti lavoratori del cinema.

Vanishing Point (Punto zro) 1971
Indispensabile opera (impura, imperfetta, senza sintesi e senza dialettica) per comprendere la 'scultura interiore' flagrante degli 'anni 70' - il decennio della revisione come gli anni 50 furono il decennio della ricostruzione, e gli anni  60 della rivoluzione. Una revisione fatale, estremista, senza compromessi dei rapporti tra romanticismo, individualismo e tecnologia rampante. Serafian e Punto zero sono l'anti-Berlinguer.

E fu dunque fondamentale, Vanishing Point, anche per capire cos'è un 'road movie', e cos'è all'interno di quel nuovo genere quel filone deviante chiamato trip film, più politico, lisergico e libertario, e perfino funesto e suicida, che indica nella deriva e nella fuga tattica, fino all'estasi, fino alla droga pesante più esiziale, la parola d'ordine più spiazzante e vitale,  nonostante tutto, e nella paura collettiva per le sorti del mondo un sentimento più coriaceo e mondano dell'angoscia individuale e privata.

Quel che conta in un road movie (che non è né 'il film di viaggio', né la sua versione moderna, il 'film di corse sulla strada', da Il sorpasso Cannonball a Rush) è una certa qualità di sguardo (come il noir era una certa qualità di atmosfera) che si condensa nell'uso di un punto di vista netto e insistito: quello fisso sul mondo che corre incontro all'automobile e alla cinepresa. Un mondo exploiding che è tutto da ricostruire. E che ci viene offerto in frammenti non facilmente collegabili. Non c'è più il puzzle ricomponibile. Il geografo non può più pensare all'Atlante, ma deve cominciare a mettersi di fronte a un Atlas, come lo avrebbe chiamato Warburg o Calvino, a una mappa di detriti (metropolitani e desertici) fatto di parti avulse, disomegenee, non comunicanti. Che possono farti impazzire.

Il road movie fa coincidere il movimento del film con il movimento nel film. Eppure un'opera come Punto zero (che è apparentemente una pellicola di viaggio e di 'corsa su strada') riuscì a cucire insieme movimento del film, movimento nel film e Movimento nella storia americana, tra vita e morte, tra vittoria entusiasmante in Vietnam - la guerra d'aggressione yankee fu fermata e Nixon destituito - e sconfitta nel paese (lo sgretolemanto delle conquiste sociali rooseveltiane continuò implacabile fino a Reagan). Ancora più in profondità fu l'affondo di questo capolavoro nelle viscere del mondo occidentale, rispetto ad altri magnifici road-movie più che perfetti, come Milestones di Robert Kramer, Two-Lane Blacktop di Monte Hellman o Alabama e Nel corso del tempo di Wim Wenders, film nei quali l'immagine-movimento e l'immagine tempo iniziano a coincidere e a sovrapporsi.

Vanishing Point raccontava la scommessa di Kowalski, un ex pilota professionista, ex poliziotto e veterano di guerra (Barry Newman) con il suo pusher: porterà da Denver la sua muscle-car, una Dodge Challanger 1970, a San Francisco in 15 ore. Siccome Newman supera tranquillamente in free-way le 10 miglia di tolleranza in più rispetto alla legge i poliziotti, stato dopo stato, cominciano a inseguirlo e lo perseguitano esagerandone la pericolosità fino al delirio, mentre il dj african-american cieco Mister Anima (Super Soul, l'attore Cleavor Little) fa un tifo radiofonico sfegatato per il ribelle, il trasgressore, il deviante, la vittima, il capro espiatorio, il drop out, il simbolo sacrificale di ciò che Legge odia, e non potrebbe. Non dovrebbe permettersi.  Ancora Davide e Golia. Ma il finale sarà assai poco biblico.

Durante il viaggio non mancheranno incontri significativi: una motociclista tutta nuda come Ladu Godiva; un cacciatore di serpenti; una immancabile (all'epoca) comunità di hippies...Lo shock è che l'eroe non fa niente di eroico, anzi si dimentica proprio di fare cose eroiche, è una sorta di Lone Ranger moderno. Ma la sua protesi, l'automobile, romantica, dalle prestazioni tecniche notevoli, con il suo lunghissimo e aggressivo cofano, sì.

La simbiosi tra uomo e automobile (welcome to the machine) diventa totale in Punto Zero, erotica, magica, la macchina si fa desiderante come la soggettività dei ragazzi del movimento di contestazione globale che deve imporsi a tutto e a tutti, contro ogni conformismo e 'valore' ereditato, contro i legame di sangue, comunità, partito, contro ogni complicità etnica, sessuale, sociale e perfino politica.

La corsa è un coito e l'arrivo coincide sempre con l'orgasmo, con la morte o con entrambi. Vanishing Point, Zabriskie Point e Easy Rider sono tre esempi fuori schema, devianti, erotico-eretici di road movie. Lo scollamento uomo-macchina avverrà in seguito, con l'automobile che divorerà il guidatore, e prenderà il posto di comando risucchiando l'uomo (Christine di John Carpenter). "In quel film - disse Serafian a Turner Classic Movie - ho avuto proprio la possibilità di psicanalizzare la velocità".

Certo. Il road movie genuino e cristallino, non inquinato dalle pulsioni rivoluzionarie, abolirà, sostituendola con una continuità passeggero-macchina-macchina da presa-paesaggio quel che era una separazione drastica, che nel film di viaggio permetteva la modifica psicologica del personaggio, la sua crescita, tramite discesa nell'inconscio (da Ombre rosse a Lolita), e nel film di 'corsa sulle strade', la liberazione comportamentale, quasi reichiana, dalle convenzioni sociali. Qui siamo all'anelo mancante tra speed movie e road movie. 

"La qualità di sguardo che definisce il road movie - scriveva Enzo Ungari - non è quella del viaggiatore, né quella del turista, né quella del pilota. Possiamo arrischiarci a dire che è quella del geografo. Immagine di un percorso (l'inquadratura che lo denuncia e lo definisce è la ripresa fissa, lunga e insistita, di una realtà in movimento), somiglianza di un diverso e moderno rapporto con lo spazio e con la sua rappresentazione (il tempo che lo determina è quello di una traversata documentaria), il road movie è in questo senso, fatto a immagine e somiglianza del cinema degli anni 70, così come, forzando, il burlesque lo è dell'infanzia del cinema e il fantastique del cinema americano degli anni trenta".  E aggiungeva. Il road movie è come la dodecafonia, la serialità nella musica occidentale. E' una rottura nella rappresentazione, la ricerca di una nuova prospettiva, di una altra armonia, mentre il mondo è sempre più frantumato, rifratto, spezzato. 

L'uomo che amò Gatta danzante
Il cineasta newyorkese Richard Caspar Serafian ha lasciato con questo film un'irreversibile impronta nell'immaginario giovanile antagonista di tutto il mondo. E la notizia, arrivata oggi, della sua morte, a 83 anni, a Santa Monica, per una complicazione polmonare, ci intristisce particolarmente, come fosse la perdita di un compagno di lotta, di un amico lontano ma vicinissimo.

Infatti. Prima di Thelma e Louise, prima di Violent Cop e della saga Il bandito e la Madama con Burt Reynolds (un attore che Serafian adorava e con il quale ha lavorato in L'uomo che amò Gatta danzante), con Vanishing Point Richard Serafian aveva combattuto corpo a corpo contro l'ottusità poliziesca più furbetta e vigliacca, e vinto ai punti. Mai nessun film hollywoodiano, periodo rooseveltiano a parte, aveva avuto il coraggio di tradurre forze dell'ordine con 'impotenza disordinata e bruta' e di mettere con le spalle al muro mandanti e simpatizzanti degli squadroni fascistoidi che avevano eseguito, dal 1964 alla fuga da Saigon, l'ordine di ripulire scuole, università, fabbriche, moschee e ghetti da ogni 'anima bella' rintracciabile, da ogni pantera nera pericolosamente a caccia. E siccome il cinema è l'arma più potente, altro che terrorismo altro che moti di piazza altro che fucili imbracciati e roteanti, aver realizzato quell'opera è come aver vinto cento battaglie. Non se ne fanno più di film così. Non c'è Legge né sgherro che possano impedire all'uomo democratico americano di "conoscere l'universo stesso come una strada, come molte strade, come le strade delle anime vagabonde" (Walt Whitman).

Se qualcuno nato molto più tardi degli anni settanta cercherà di capire in meno di due ore cos'è stata la rivolta studentesca americana contro la guerra del Vietnam, il razzismo arrogante e l'autoritarismo dovrà riguardarsi Punzo Zero. Capirne il ritmo, la concentrazione, l'alterità totale. E magari confrontarlo con il suo antidoto, altrettanto geniale, Trains, Plains and Automobiles (1986) di John Hughes dove due yuppies (Steve Martin e John Candy) fanno il viaggio opposto, dalle libere strade infinite della libertà sfrenata verso la casa borghese embedded dei suburbi, dove li aspetta il tacchino del giorno del ringraziamento, che dovranno conquistare zigzagando pericoli e avventure, invece di bearsene.

Richard C. Serafian veniva dalla televisione, da Altman, avendo diretto episodi delle serie Bonanza, Gunsmoke, The Twilight Zone (Living doll, del 1963, terorrizzò il figlio Deran, futuro regista) e Batman. Come attore aveva lavorato, in ruoli di cattivo, con Warren Beatty in Bulworth e Bugsy mentre era sua una voce 'mafiosa' di Dr. Doolittle 2.

Nato il 28 aprile 1930 a  New York City, Richard Caspar Sarafian era figlio di immigrati armeni vittime del genocidio. Frequentò l'università ma la sua alta propensione al bere, e il suo comportamente beatnick lo portò a seguire i corsi più facili di scrittura e regia, e la cosa funzionò.  In Corea durante la guerra come reporter dell'esercito si trasferì poi a Kansas City dove conobbe Robert Altman.

Sarafian ha diretto anche Frammenti di Paura con David Hemmings ex drogato pesante in Italia per vendicare la morte di una zia (1970), una sorta di Blow up che incontra Mario Bava e La scimmia sulla schienaMan in the Wilderness (Uomo bianco va' con il tuo dio) 1971, un contro western con Richard Harris; The Man Who Loved Cat Dancing; Run Wild, Run Free (Corri libero e selvaggio), 1969, su un fantino inglese muto di 10 anni. La terra si tinse di rosso (Lolly Madonna XXX) con Rod Steiger e Robert Ryan (1973). Il suo primo film, Andy, 1965, era la storia, ambientata a Manhattan, di un disabile mentale. Del 1976 è invece la parabola politica Il prossimo uomo, su un diplomatico arabo che cerca di fare la pace con Israele e di ammetterla all'interno dell'Opec...