giovedì 13 giugno 2013

Il Kaspar Hauser di Davide Manuli

Roberto Silvestri 

Nessuno mette in discussione, se il contatto è avvenuto – e non è facile, perché film di godimento "francescano" e materico come Girotondo e Beket sono stati nascosti agli sguardi indiscreti dal nostro submercato e dalle nostre istituzioni culturali pubbliche – la prepotenza visuale, la "superbia" espressiva, lo charme magnetico, e lo stile saturo fino a esplodere dei film in bianco, nero & grigio di Davide Manuli. 
Davide Manuli


Film che toccano anche se non si vedono. Che urlano, magari a sonoro abbassato. Qui, dalla Febbre del sabato sera alla monossessione dj siamo dentro l'ultimo capitolo della storia 'cinema e rock'. Di era electro-house. Ripetizione ritmica senza differenza. Antitesi senza sintetizzatore. Se metti poi in gioco l'archetipo dell'immagine determinata e fissa, come fa Manuli: cielo-terra, star dritti-star stesi, luce-notte, grida-silence, articolato-disarticolato, natura-civiltà e li ribalti, il gioco si fa duro.

Espressionista (l'immagine ha più tempi simultanei). Barocco (l'immagine vacilla sotto la spinta di più forze antitetiche che si scontrano). Dada (altro che tipi, i corpi diventano merci prezzate a codice barra, o almeno lo immagini).  Mi raccomando. Siate paranoici se volete essere liberi. Al limite siate nella noia. Ma. Non fatevi mettere in forma da nessuno. A costo di essere uccisi. Di perdere cioé tutto quello che si è dentro. Lo diceva l'antipsichiatra inglese Laing mettendoci in guardia dalla famiglia. Qui non si dice. Si è. Liberi. Dalla prima lieve carrellata all'ultima sequenza.  

Ne La leggenda di Kaspar Hauser siamo in Alta Gallura. Immagini sonore e visive che si scontrano, incontrano, sovrappongono a vicenda, e che contengono (altro che equilibrio da ragioniere tra forma e contenuto) disequilibri vitali e fecondi,inciampi, attrazioni e repulsioni alchemiche, forza di volare. Leggerezza.  Ufo. Telecinesi grottesca. Troppo lo spettacolo. L'azione. La 'noia' tradizionale è altrove. E' il vuoto ipersaturo di cui scrive Giuseppe Fidotta. Siamo affogati nelle luci da cinema metaforico, poetico-politico di Tarek Ben Abdallah che, come si sa, maneggia insieme ben tre forme.

Succedeva già in alcuni film di Fellini. In alcuni romanzi siciliani di Vittorini riletti da Calvino (i classici vanno succhiati bene, non citati): 1. la forma mitica, il viaggio. Un corpo misterioso che viene dal mare, come un esule, come un immigrato, come un clandestino. E così lo trattano. Apre fessure, introduce spifferi. 2. La forma stilistica. Il dialogo. Con lo sceriffo, il pusher, la duchessa, il prete, la puttana, i servi. Che avviene anche nel linguaggio non verbale e di combattimento del corpo a corpo. Corpi lavorati e degradati, forzati fino allo sfinimento e all'aritmia. Che si rompono come cavalli. Il disseccato espressivo di Claudia Gerini (come si sente che è fiera di stare in queste immagini, finalmente adornata e non adornante), l'ultrasuono di Vincent Gallo, l'ultracorpo di Silvia Calderoni. Nel dialogo mono o stereo si cambiano i set mentali. 3. La forma concettuale. L'utopia. Che non è mai un impossibile da raggiungere. Ma un già dato, di cui vagamente ci si ricorda. Prima ancora del mito.  Come era comunista il buon tempo andato.

Viaggio, dialogo e utopia. Carrelli delicati, camera fissa, quasi ipnotizzata. Sono i tre vettori dell'evoluzione cosmicomica. Che non è roba che riguarda la sopravvivenza dei più forti e violenti e sopraffattori. E forse neanche, come suggeriva giustamente, scientificamente Kropotkin, la maggiore resistenza dei collettivi solidali che resistono un minuto di più al demonio del sempre uguale e del prepotente. Ma tensione egualitaria della metamorfosi. Siamo postumi nel desiderio mutante e della tempesta emozionale.  

Storie affascinanti e incantate, insomma, si indicano e si accomodano negli spazi in riva al mare, perché abili nel mettere in moto un differente processo spirituale, nel traghettarci e deviarci dall'opulenza rassicurante dell'imitazione della vita (complice questa volta un cast mozzafiato: Vincent Gallo, Silvia Calderoni, Claudia Gerini, Elisa Sednaoui, Marco Lampis e Fabrizio Gifuni per il quale Manuli ha scritto il «Monologo del Prete», Giuseppe Genna che per Manuli è «il più grande scrittore vivente in Italia») al denudato, allo stilizzato, allo scarnificato, come nella basilica bizantina quando tutti gli sguardi cullati dall'ampia spazialità e dagli ori si ghiacciano d'un tratto scontrandosi con gli occhi dell'icona...


Vincono le ossessioni, insomma, dello stile trascendentale nel senso che dava Paul Schrader a questo concetto: quello capace di trasportare lo spettatore dall'abbondanza alla rarefazione, dal familiare verso una dimensione aliena che si sbarazza dell'effetto di realtà. Ciò che distingue una sequenza di Manuli (o di Bene, Dreyer, Ozu, Godard, Bresson, Ciprì & Maresco...) da un solo "frame" di Virzì o Lars Von Trier o Emmerich è infatti che in questi ultimi casi, comico-satirico o tragico o iperspettacolare non conta, pur essendo il cinema riuscito a traghettare ogni altra arte nel XX secolo, il loro (e la maggior parte del cinema di qualità commerciale o d'autore) è rimasto tristemente legato al XIX secolo, alla brama di verosimiglianza, a una narrativa inutilmente realista, sia del sensibile che dell'interiorità, dell'azione come dell'affabulazione, tutta però fatta solo di mezzi temporali "ricchi", come avrebbe detto Jacques Maritain.

Questo misterioso e esoterico Kaspar Hauser (appare la "nuda vita", e per la civiltà è insostenibile, la rimuove, la cancella, la imprigiona, la rimodella o ributta in mare, come si fa con gli extracomunitari) che Manuli dopo Rotterdam finalmente riesce a presentare nelle sale italiane, rischia di diventare la punta più avanzata di questo processo di depurazione stilistica, un moltiplicatore di movimenti emotivi per lo spettatore, quando l'immagine si ferma, e di discesa nelle profondità subumane quando la cinepresa di Manuli ha il coraggio di sollevarsi e di inquadrare il cielo, in porzione esagerata.

«Prendo molto dal subconscio e dall'etere che ci circonda, l'analisi del mio lavoro non lo faccio, in parte, neanche durante il processo creativo» ci confessa. «Due artisti mi somigliano. Genet, che uscito di prigione anche grazie a un saggio di Sartre, voleva accoltellarlo per averlo analizzato a sua insaputa e inultilmente, e De Niro, genio mondiale dei nostri tempi, definito da tutti quelli che provano a intervistarlo "tonto spaesato e sempliciotto", perché non trova mai le parole adeguate al suo genio». Ma non mi ricordo se la linea dell'orizzonte era alta, come nei film succubi o bassa come nei western classici fordiani, dominati non da dio ma da Wayne, che tracciano la teologia del frontier man conquistatore. Qui l'orizzonte è Vitalic. Acustico. E si accettano approfondimenti, da orecchie vispe, è su o giù o al centro o dietro? Il western surreale di fantascienza è questo.

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